Eu-Tòpos

 

«Come assecondare la memoria e vincere il tempo?» un’intuizione di Francesco Aprile

In questa frase di Antonietta Fulvio, a pagina 7 dell’introduzione dell’ultimo libro di Francesco Pasca, c’è inizio e fine di un testo. Il suo sviluppo. La sua armonia. Il divenire e l’approccio che l’autore ha verso il libro – e che il lettore sente all’ascolto del ritmo che batte – lettera dopo lettera.


Essere di parte. Credo che a tutti sia capitato in un buon 90% delle proprie vicissitudini – inquadrando la questione attorno ad una percentuale come il 90% mi ritengo generoso, credo si possa abbozzare un dato maggiore – ed io in questa storia sono di parte. È questione di scrittura. Mi ci immergo – dico, mi piace. Essere di parte è naturale, allo stesso modo di come dovrebbe esserlo mantenere la propria autonomia.
Questa storia inizia così. Con me che sono di parte e un apprezzamento che nasce con la lettura del precedente “Otranto. Il luogo delle parole”, in quel mulinare parole come una scansione temporale di un testo in tre dimensioni. La multimedialità del gesto, il multitasking del pensiero.
Eu-Tòpos di Francesco Pasca, Il Raggio Verde Edizioni, si apre così. Un prologo. Parole. Nomi. Una portata semantica che disegna la parola come lo sfogliare un fiore, un lento retrocedere. La parola come agire nell’agire, fiore nel fiore. La fantasia è fiore nel fiore della ragione. Uno sfogliare petali della fantasia che svela la ragione. La parola è un luogo. Un prologo che è come un viale alberato. Introdursi sulle vie di un luogo. Legittimare la ragione, formalizzare l’atto creativo.Poi, il testo. Le prime impressioni, la storia che si sviluppa, prende forma, corpo, assume consistenza, ma, soprattutto, presenza nel lettore. Un lento adagiarsi di parole, come briciole di pane, nel pensiero. Come a segnare la strada.

Un guidare la lettura fra i sentieri di parole che sono connubio di immagine e segno.
Così, a pagina 32, è lo stesso Pasca a scrivere:
«…con un Vero costretto all’apparire e con il Falso con la certezza d’essere. Le regole di quei sudditi, non necessariamente dovevano corrispondere alle proprie, alle normali aspettative dei loro regnanti, ma ad una o più d’una, per loro, strane risoluzioni dei bisogni. Le stesse predeterminate da quel suo non dover essere costretta ad apparire.»

 

Incanalando il lettore su un primo binario dettato dal dualismo Essere/Apparire, nella società moderna, il paradosso dell’essere nella libertà che è, ma non è apparire, in accordo con la ragione, per una base fondante dell’essere lontano dallo stuprare corpo e mente della moderna feticizzazione. Libertà come bivio di essere o apparire. Il vero che diviene apparire, il falso che è l’essere. L’ambiguità di una società che afferma per vero ciò che non è.
Il racconto prosegue in una dimensione/luogo in cui libertà ed essere si dibattono fra vero e falso, necessità di o non apparire. Con una svolta, decisamente una lettura che è sguardo all’odierno, in cui il vero è necessità d’apparire, ed il falso d’essere. Ci si sposta su un terreno che è spazio e tempo dell’ambiguità, condizione ancor più accentuata dalla scelta temporale della narrazione che dona forza ad una storia che mostra la sua attualità lungo il continuum temporale dell’indeterminatezza.
La prima parte, “Mi disegni una parola”, termina nella condizione di indeterminatezza in cui era iniziata e si era svolta. Al contrario, la seconda parte, “Eu-Tòpos”, è caratterizzata da riferimenti temporali ben precisi, salvo, poi, tornare e ritornare, nell’indeterminatezza che l’aveva preceduta.
«Non era dato sapere altro, così come l’appartenenza di quel contenuto ad un Luogo preciso. La torbida consistenza del contenuto ed il mancato odore, lo rendeva ancora più misterioso.»
E ancora:
«Oggi l’aver condotto suo padre in quel Luogo, sebbene protetto, riduceva Romolo alla più grande malinconia e, per questo, non riusciva a distinguere il confine tra quei due concetti così complementari ed al contempo altrettanto distinti che prefiguravano quello da lui definito Non-Luogo. A maggior ragione se quel Non ne negasse la sua definizione o se ne attestasse, a suo dire, un diverso supporto. Era lo stesso termine di definizione, avendone lui stesso un’idea molto precisa, a renderlo ancora più perplesso.[…] Non si manifestavano affatto come eventi per una collocazione di un Luogo.»
Fondare i luoghi. È questo uno dei propositi, la ricerca e formalizzazione dei non luoghi per eccellenza. Il luogo è, all’origine, impossibile da marcare con dei confini, ma il modo in cui, il pensiero, la Ragione, sono soggetti interessati, necessitati, dal corpo trovano lì, nella necessità del corpo, il loro limite, come per Locke la ragione è delimitata dall’esperienza e, da essa, trova la forza di generarsi, il proprio fondamento.
È nel corpo il limite umano. Perché, è poi così slegato dal corpo il pensiero?
«Nn può soddisfare la logica della Conoscenza di un sé – e, sempre con un fare accigliato, continuava: ovunque sia quel Luogo, dove si vuol dare dimora, questo non potrà mai aver assegnato i confini. E di lì ancora – Il luogo, di contro, subisce la sorte degli eventi dai quali è stato segnato, da come viene insediato, accomodato, vissuto e subordinato alla propria storia. Naturali, politici, immaginari o qualunque siano o potranno essere questi eventi, spesso, essendo l’io, l’umano fisico, a segnarli, meno spesso è l’umano io della fantasia a darne conto. Esso stesso, quel Luogo, è come presenza di quel sé.
Fiato, consapevole di questo limite, aggiungeva – E quando è l’immaginazione a soccorrermi come necessità, è proprio con quell’io dell’immaginario che ne vado, paradossalmente, a sottolineare la sua fisicità. La mia Conoscenza ne diventa l’assoluta padrona. Essa s’amalgama, si stende, prende forma e della forma ne fa la sua immagine.»
Lontano dall’idea platonica delle idee e, come si legge nel Fedone, anche da quella conoscenza che è solo ricordo, capacità umana di ricordare in virtù di un’anima che non muore e porta l’uomo a vivere, consegnandolo ad un riciclo eterno di vite. Lontano da questo. Lontano. È nel concetto di questa lontananza una nuova svolta nell’opera di Francesco Pasca.
«Platone non mi aiuta, lo sento così vicino e al contempo lontanissimo. L’idea, quando questa suggerisce, mi impedisce di nascere e di morire ed ancora di ri-nascere e di ri-morire. La metafora della sua caverna mi risveglia momentaneamente dal letargo conoscitivo. L’ignoranza metafisica in me non vuole essere relegata alla sola approssimazione, ma alla certezza.»
E si instaura, nelle pagine di Eu-Tòpos, un sottile gioco fra conoscenza certa e probabile, in bilico fra lo Hume del non può esistere una conoscenza certa, ma solo probabile ed il Kant della “Critica della Ragion Pura” che sovverte il credo di Hume (meritevole secondo Kant d’averlo svegliato dal sonno dogmatico) individuando nella scienza matematica della natura quello che per lui diverrà il sapere autentico. La matematica, infatti, contiene secondo Kant delle verità universali, dotate di giudizi sintetici a priori; a priori perché dotati di una validità necessaria che non dipende dall’esperienza umana. E qui si ritorna, in un certo qual modo, a quel Mito della Caverna che, a detta dello stesso Pasca, “mi risveglia momentaneamente dal letargo conoscitivo”, con l’idea del Sole, fonte di luce, come fondamento dell’idea del Bene, divinità creativa ed indipendente, come nella teoria delle idee sono, al di sopra di tutto, situate nel mondo dell’iperuranio, le idee del Bene, del Vero e del Bello, ovvero, concetti eterni, il sapere umano nella sua “Forma” alla quale è possibile contrapporre la dimensione transitoria del sensibile. È come se, da Platone a Kant, intercorra un parallelo fra le Idee e le Forme a Priori. Conoscenze certe. Ma è un viaggio, parole in bilico, dicevo, fra la certezza e l’incertezza – dettata dallo scavare, il voler andare oltre, cercando l’antefatto del pensiero, il momento che è percezione ed istante topico della creazione.
C’è una memoria a breve termine, generata dalla malattia, che porta il protagonista a conoscere tutto, per la prima volta, ogni cosa, ogni volta. La memoria del primo giorno, della prima ora, solo del principio costante, perché ogni ricordo è sempre una prima volta. La memoria. Questa memoria, luogo preposto alla ragione, come intuizione, percezione costante. Continuo conoscere/riconoscere attraverso quello stato di memoria a breve termine, nel quale è relegato il protagonista, che non prende a pretesto la reminiscenza platonica, ma è un continuo ritornare all’origine.
La follia è, così, mediata da questa ragione, il fiore nel fiore, per poter vincere il tempo. La follia che si contrappone a quell’uso che l’anima fa della ragione, secondo Platone, l’anima capace di farne buon uso torna allo stato di felicità, al contrario, è destinata a ricadere sempre in nuovi corpi, come scrive lo stesso Pasca «mi impedisce di nascere e di morire ed ancora di ri-nascere e di ri-morire». Ed è questa follia un procedere verso lo sconfiggere il tempo. L’assecondare questa memoria dona spazio ad una conoscenza certa, non probabile, che ci appare nell’intuizione spazio-temporale di un tempo che è sovvertito, abbattuto e ricondotto all’istante del sé, della nostra presenza che diviene traslazione dell’essere umano allo stato di “Forma”, l’uomo che diviene l’Idea di sé.
«Io sono, devo pretendere di essere e rimanere costantemente l’Idea e, come tale, da sempre ne presiedo questo Spazio-Luogo come nascita ed evoluzione.»
Nel capitolo “Il Metodo” c’è il momento della percezione, del gesto, dello scrivere orgasmico, ritmo vitale, sostanza che ci produce, parola come gesto, traslazione del concetto e dello spazio dell’immagine. Attraverso tutto il sentire dell’uomo. Condizioni. La prosa spontanea di Kerouac.
Così, Francesco Pasca, segna il ritmo della parola «Infatti si soffermava lungo quel percorso a verificare e a segnare con segni minuti sui taccuini, quelli delle Impressioni. Romolo ne portava con sé in numero di quattro. Sul primo andava segnando il senso originario delle immagini visionate. Sul secondo, appuntava la capacità della fruizione. Cioè quanto quell’immagine potesse perdurare nella sua ed altrui memoria e quanto quella sospensione onirica generata potesse entrare a far parte nell’immaginario collettivo. Considerava questo processo e lo definiva essere: approccio estetico, percettivo. L’atto della percezione era considerato da lui il più importante di questi interventi. Sul terzo di quei taccuini descriveva la nascita di quei sogni. Sul quarto di quei taccuini, infine, andava a segnare ciò che apparentemente non poteva essere segnato, la sua Anima. Scriveva […] dei segni che andavano a generarsi spontaneamente come soddisfazione di sé. Raccontava dell’inizio della scrittura come conseguenza del gesto.»
Proprio come andava scrivendo, teorizzando, Kerouac nei “Fondamenti di prosa spontanea”, nei quali scriveva: « 1. Taccuini segreti scribacchiati, e incredibili pagine dattiloscritte, per puro piacere personale. 8. Scrivi quello che vuoi senza fondo dal fondo della mente. 9. Le inesprimibili visioni dell’individuo. 17. Scrivi per te stesso nel ricordo e nello stupore.»
Ma il gesto non è solo un indagare il linguaggio. È un agire, l’andare dell’essere umano sfogliando a ritroso la sua storia letta come tempo unico, costellazione critica nella quale individuare un incontro, ovvero, il presente; fra passato ed istante. L’immagine assume così una valenza duale. Non è più solo l’immagine percepita, ma, nel segno, è percezione e punto critico di uno spazio temporale in cui ciò che è stato va ad unirsi con l’ora. L’immagine diviene frutto della percezione e di ciò che Benjamin definiva Immagine Dialettica, “ciò che è stato va ad unirsi con l’ora”, un momento in cui la percezione va di pari passo con l’antecedente, il momento primordiale, “un momento di arcaico, il gesto” (F. Pasca) – per una sorta di recupero/ritorno al momento espressivo dell’uomo primigenio in virtù di un presente, quello di Benjamin, in cui passato (gesto; gesto che è passato inteso come primordiale) e istante (percezione) si incontrano.
«Le azioni che segnava come metodo, divenivano il gesto dell’uomo ai primordi. Pensava alla serialità di tale gesto, a come esso una volta esauritosi poteva ripetersi all’infinito, ma a danno di quella componente emotiva che lo aveva inizialmente generato, caratterizzato.»
In modo che la serialità del gesto, nei millenni dell’uomo, va perdendo la sua anima, come l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ha perso la sua aura.

 

 

Francesco Aprile