Ricordando la strage di Capaci

23 maggio 1992/2012. Vent’anni fa la stage di Capaci. Oggi più che mai si alza una voce corale da tutto il Paese

GRAZIE

di Fabrizio Donato Fumai

 

“Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato.., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…Ma loro non cambiano… […] …loro non vogliono cambiare…Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore, non ce n’è amore..”

Parole di dolore, di rassegnazione, di sconforto. Parole forti più del piombo o del tritolo.

Parole di un pomeriggio di vent’anni fa.  Un pomeriggio di pioggia, di bare e visi segnati. Sguardi incisi da lacrime tanto dense ed erosive da non lasciarne intatto il percorso . Volti oscurati da una tristezza nera, opprimente e pesante più del cemento armato. Stanchi, provati, impietriti. Congelati.

Il sole aveva smesso di guardare. C’era rabbia. C’era  anche tanta rabbia quel grigio pomeriggio vent’anni fa a Palermo. C’era voglia di gridare. C’era sete di giustizia, fame di rivalsa. C’era del buono dentro quelle bare e fuori.

 

Dentro quelle bare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Fuori da quelle bare migliaia di uomini e migliaia di donne in silenzio ad ascoltare quelle parole. Nel rivedere quelle immagini, però, a rimbombare tra le mura della chiesa di San Domenico a Palermo non era soltanto la voce tremante della signora Schifani ma l’urlo inferocito di speranza di tutte le persone buone che quel giorno erano lì.

Erano parole di rivincita, di speranza.

A morire su quella maledetta autostrada, che dall’aeroporto conduce in città, non erano stati un magistrato, un altro magistrato e tre poliziotti ma soltanto cinque persone. Cinque persone buone ed oneste. Cinque persone che amavano ridere, cenare con gli amici, ascoltare della musica, andare al mare. Cinque persone che amavano il proprio lavoro.

Colpevoli di servire  senza risparmiarsi arrivando persino a dar la vita uno Stato che non ha saputo valorizzare il loro lavoro, uno Stato che non è riuscito a proteggerli, che li ha isolati, che ha saputo puntualmente prima screditare e poi bruciare le loro vite con puntualità disarmante credendo di spazzar via tutto ciò che di buono la loro vita aveva offerto a coloro che avevano avuto il privilegio e l’intelligenza di goderne:  giustizia, onestà e  libertà. Uno stato che, forse, li ha uccisi.

C’è giustizia quando esistono delle leggi che rispondo all’interesse di un gruppo sociale e quindi  alla comunità di uomini e donne che, mettendo da parte i particolarismi egoistici e gli slanci di individualismo, si stringono attorno al bisogno di cementare e consolidare un concetto di bene comune che non può avere per sua natura più di un’ interpretazione. C’è giustizia quando queste leggi vengono rispettate e quando, sempre queste leggi, vengono fatte rispettare, attenendoci ai principi di comunione sui quali il gruppo si fonda. C’è giustizia quando esiste un indirizzo unitario, un ideale indistruttibile che perdura nel tempo.

E’ onesto chi rispetta le leggi, chi quelle leggi in nome  del popolo e su richiesta delle esigenze del popolo stesso le fa e le sottoscrive. E’ onesto chi fa in modo che ogni possibile violazione dei valori, ogni possibile abuso dell’organizzazione statale ed ogni possibile colpo alla struttura giuridica della consociazione umana possa rientrare e guarire. E’ onesto chi mostra lealtà verso la propria vita, il proprio rapporto con gli altri ed il proprio lavoro. E’ onesto chi rifiuta la contiguità ed il patteggiamento. E’ onesto chi fa il proprio dovere e chi ha rispetto del dovere altrui.

E’ libero chi agisce secondo giustizia, chi trasforma quotidianamente l’onestà in azioni, chi ha fiducia nello stato.  E’ libero chi non ha paura della propria onestà. Chi spera. E chi, sperando, non si lascia travolgere dall’angoscia dell’immobilismo ma si adopera per cambiare quella corrente fredda che spira nella direzione opposta alla bontà della vita, alle istituzioni, al comune senso di appartenenza ad una società fondata ed ordinata sul diritto e sulla visione armonica che della quotidianità esso riesce ad offrire.

Quelle persone erano persone credevano nella giustizia, persone oneste e soprattutto libere.

Il verso 11 del capitolo 1 del primo dei cinque libri della genesi recita: -e Dio disse: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto che facciano sulla terra frutto con il seme ciascuno secondo la sua specie”.

In fondo è questo il compito del cittadino. Intrecciare la propria pianta con quella del vicino in modo tale che il frutto del proprio albero possa servire a sfamare anche la bocca del vicino. E’ necessario nonché doveroso far germogliare i propri talenti e farlo in sovrabbondanza. Senza sosta e senza risparmio. Solo così sarà possibile ritrovare la forza unitaria con cui la collettività dirompente sfonda il muro della criminalità.

Come il moto inarrestabile e costante dell’acqua sorgiva, limpida, veloce, che dalle cime delle montagne scava nella roccia fino a giungere ad irrigare le terre così la volontà delle persone giuste, unite, diventa imbattibile e capace di bonificare e recidere ogni legame con la parte malata e paludosa della terra che è sotto i nostri piedi. La parte buona può vincere quella cattiva per il sol motivo che è tanto ma tanto più grossa.

Questa è l’eredità del giudice Falcone e delle vittime della mafia. Bella, pesante ed ancora bella.

E difronte a tali riflessioni sembra inutile, oggi, nel ventesimo anniversario di quell’eccidio bestiale, ripercorrere le storie, le vicende umane e professionali di Giovanni, Francesca, Vito, Rocco ed Antonio.  Anche perché sembrano coesistere due rami paralleli degli eventi che portarono a quel 23 maggio 1992. Da un lato i fatti, le cronache conosciute da tutti, i meriti, le carriere ed i perché; dall’altro le risposte a quei perché non ancora scoperte. Come non ancora scoperti sono i motivi ed i mandanti occulti che commissionarono la fine di quelle cinque esistenze.

Manovali, soldati, militanti, uomini d’onore, capi, boss, concorrenti esterni, imprenditori, funzionari dei servizi segreti, pezzi di Stato, politici. Le metastasi sono ovunque.

Ma è qui che la speranza deve trasformarsi in fiducia. E’ qui che la rassegnazione deve trasformarsi in forza combattiva. E’ qui che la paura deve divenire coscienza e trasformarsi in coraggio.

Ed è lì che in quel pomeriggio di maggio il sangue cedette alla forza delle idee.

Perché le idee non muoiono sotto il tritolo, anzi, hanno la masochistica  e sorprendente capacità di amplificarsi allo scoppio di una bomba.

La forza di Rosaria Schifani, appena ventiduenne, come di tutte le persone buone presenti allora, come di tutte le persone oneste che oggi credono negli ideali per cui Falcone ha perso la vita si concretizzò e tutt’oggi si concretizza nel lavoro e nella buona educazione di chi ha il coraggio di non abbassare gli occhi.

La parte sana della società, dello Stato può sconfiggere definitivamente ed eliminare il cancro del compromesso morale, del dispotismo omertoso, della collusione, del sangue sparso e delle lotte di potere. Non esistono medicine. La medicina è la gente per bene.

La medicina è anche il perdono. E la possibilità di curare il male anche con il perdono.

Il perdono però non si svende e non si può svendere.

Esiste uno Stato buono, sano e pulito; uno Stato che non si può nascondere dietro una lontana utopia ma può e deve essere reale.

Ed è proprio la consapevolezza dell’esistenza di questo Stato che assicura all’uomo moderno la possibilità del cambiamento.

Lo Stato non è morto quel 23 maggio. Lo Stato vive. E vive insieme a Giovanni Falcone.

“Sono morti per noi ed abbiamo un grosso debito verso di loro; questo debito dobbiamo pagarlo, gioiosamente, continuando la loro opera, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere. La lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”

Queste ultime parole di Paolo Borsellino sono quel germoglio che ognuno di noi deve impegnarsi a far diventare prima albero e poi frutto.

Lo dobbiamo a loro, al ragazzo che incrociamo per strada, alla bambina che è appena nata in un ospedale dall’altra parte del paese.

Lo dobbiamo a noi stessi ed a tutti coloro che vivono con la speranza e la voglia di una vita migliore.

Per tutto questo, Giovanni, Francesca, Vito, Rocco, Antonio, grazie.