in un mare di latte

Cecità.

Storia in un giorno di acqua e anice.

di Francesco Pasca

Mi hanno parlato di faglie che “scorrono” e di “continenti” che si accavallano. Mi hanno detto della “Pangea” di ciò che prima era unito e poi dell’allontanamento da un sé, da qualcosa che ha deciso di prendere le distanze, acquisire le differenze, staccarsi dall’anonima configurazione di un tutto e diventare invece il più di tanto. Mi hanno edotto sul nucleo che è fuoco, che il fuoco trasforma e che l’aria ossida i metalli, che l’acqua è anche fuoco e porta con sé le parti di un tutto e che tanti altri elementi generati si ricombinano con altri ancora non per solo sommarsi ma per aggiungersi ai tanti. Mi hanno detto che si scontrano non solo le faglie ma anche ciò che è infinitamente più piccolo e se violentemente costretto a collidere quest’ultimo nello scontrasi genera la formula dell’ E=mc2. Ho letto di altre formule che attendono a nuove energie. Ho fatto meraviglia delle mie visioni e delle mie illusioni conoscendo non solo nelle favole la Fata Morgana. Mi hanno “convinto” che esistono guerre e mezzi intelligenti per attuarle e rassicurato della loro potenza e sicurezza chirurgica. Non ho saputo sorridere alla “intelligenza” di chi mi sottoponeva l’imbecillità. Ho viaggiato sulla palla di cannone insieme al Barone di Munchausen e il mio gemello sulla terra si è nel frattempo invecchiato.

Ho letto di sconvolgimenti, di civiltà probabilmente vissute e di altre che hanno spento la loro esistenza nell’inspiegabile. Mi hanno anche detto di un me uomo e di come questo si sia trasformato e diversificato e, nell’altrettanto, si è unito nella trasfigurazione, nel volere l’apparizione di un Cristo nello splendore delle tante sembianze divine sui tanti monti “Tabor”, sui tanti luoghi della Terra, nelle diverse religiosità. Da tutto quanto ho appreso e un poco conosco. Ma, per me, è tutto iniziato come nel passo tratto dall’ultimo libro di Saramago, “Cecità”.

 

Ho letto:«C’era un vecchio con una benda nera su un occhio, un ragazzino che sembrava strabico […] una giovane dagli occhiali scuri, altre due persone senza alcun segno visibile, ma nessun cieco, i ciechi non vanno dall’oculista».

In questa certezza, io però ero “cieco”, e, da “non” cieco, sono andato dall’oculista, per vedere quanto mi era divenuto impossibile minimizzare nei dettagli. In me, il viziato e il beneficiato dal dono della vista e dall’uso della luce che ne fa il colore è stato indispensabile. Ho io stesso programmato e altri ancora hanno programmato e assecondato quell’evento e, in una normale successione di cause ed effetti tutto questo mi è apparso scontato. Nell’attesa di terminare quanto leggevo di Saramago ho ascoltato i fatti del giorno, dell’improvviso tremore, del respiro più forte ottemperato dalla nostra Terra che aveva deciso di sputare il suo respiro sull’Emilia, lì dove tutto dimorava tranquillo. Ho pensato alle tante conclusioni improvvise di un evento, alla continua prova cui è sottoposto l’uomo nella sua millenaria esistenza. Ho pensato all’accaduto e all’accadere, anche alla straordinaria necessità a continuare, di attendere il nuovo da sopportare o mitigare. In quell’ascolto e in quel che da me preteso ho pensato di misurare in colpe quanta sia stata la misura da ascrivere alla mancata sorveglianza del proprio sé. Nella mia collocazione geografica mi sono affidato alle probabilità e sono ritornato inesorabilmente all’improbabile di quanto andavo a quantificare. Il tremore della Terra è stato anche il mio tremore e sono stato portato a comprendere del cosa può essere il buio e la luce, cosa può celare la “Cecità” di Saramago o la visione descritta nel finire da Dante nell’ultimo verso del suo Inferno e del tempo in secondi di un respiro della nostra Terra. Quando si conoscono i luoghi sei più presente e t’affanni a capire il perché. Quando si percorrono coi ricordi le strade che sono state solide e solidali sotto i tuoi piedi non immagini la sabbia nascosta sotto i piedi degli altri e di ciò che è stato tuo per un breve tempo. Le sensazioni degli altri mai avresti pensato che avrebbero aderito tenacemente alla tua paura, così come lo erano e lo sono i tuoi ricordi. Da svagato raccoglitore di strade hai assaporato i dislivelli e le impronte lasciate prima di te da altri e tutti, oggi, sono nell’inconsapevole di quel tremore. Ma di cosa parla “Cecità” di José Saramago?

Mi è piaciuto leggerlo e voglio descriverlo attraverso un’ancor più sottile metafora, quella della nostra cecità che s’affanna a parlarci e ci porta, per questo, per mano femminile diventando buona moglie. Noi ci trasformiamo in “medici”, siamo la popolazione dagli occhiali scuri, siamo i bambini e i vecchi. Ognuno di noi crede di dover ricorrere all’inspiegabile e assecondare: «Fra i ciechi c’era una donna che dava l’impressione di trovarsi contemporaneamente dappertutto, aiutando a caricare, comportandosi come se guidasse gli uomini, cosa evidentemente impossibile per una cieca, e più di una volta, o per caso o di proposito, si girò verso l’ala dei contagiati »(Saramago). Infatti, per questo continuo ed ascolto le notizie e i quanti si avvicendano a spiegare dell’oggi. Ma, a me occorre fingere di essere vittima delle nostre stesse epidemie. Per questo sto parlando di Saramago e penso a cosa può accadere ad un vecchio con una benda nera sull’occhio sinistro se transita nell’incorrotto senso dell’imprevedibile. Per un giorno l’ho provata questa sensazione: «È come essere immersi in un mare di latte ad occhi aperti»(Saramago). Per questo vi dirò la stessa cosa. Per questo, Io, da cieco, sono stato nello stesso autentico inferno. Ho ascoltato e non veduto la televisione, sono cieco ma “Sento”, “Sentirò” di sciacalli che approfittano del buio altrui. “Sentirò”, “Sento” come si perde il rispetto e ascolterò le ansie: «È una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli […] Il mondo è pieno di ciechi vivi”».(Saramago) Ho percorso il budello obbligato della “natural burella”. Nel “natural” ho trovato l’esito del ritornare a vedere, a sperare, a ripercorrere, iniziando dagli antipodi il mio passato e tornando a camminare dopo l’essermi staccato dall’imbriglio della selva oscura e dal cipiglio luciferino di chi vuole farmi retrocedere. Per me è stata curiosità l’attraversare un cunicolo già percorso da un fiume. Mi è stato possibile collegare il centro della terra dove penso sia collocato, in quel freddo bollente, Lucifero. Sono stato nella quarta zona e la testa di Lucifero si mostrava con tre facce, tre venti e tre colori diversi, il rosso, il giallo e il nero. Sono stato Giuda, Bruto e il Cassio. (Dante) Sono stato lì, maciullato da quell’eternità. Sono anche sulla cresta gelata del Cocito. Sono stato anche nel buio altrui e non occorre vedere se è fiume o ruscello ciò che ci scorre davanti, lo sappiamo riconoscere dal suono e sappiamo che è anche il Letè, quello del X libro della Repubblica di Platone. Sono così disceso nell’oltretomba per un giorno, per conoscere i misteri della reincarnazione e per capire com’è fatta la zolla di terra che calpesto, che calpestiamo, che trema.

A me, a te, all’iniziato, tocca giungere lì per entrare nel nuovo e non devi bere l’acqua che induce all’oblio ma farne tesoro con l’udito più che con la vista. È la rimembranza perché non vi è ancora luce. Tutto quanto tu odi è ciò che sgorga e si porta appresso il tuo sé. È quanto di te è restato imbrigliato nei peli di Lucifero e nei tuoi ricordi di purgatorio. Sei con me tra le  colpe e i mali del mondo. Tutto scorre verso il Cocito nel freddo ch’è caldo. E lì che accade l’imprevisto, ed è come il buio e la stessa luce. Avverti quella casualità repentina ed è luce che può accecare, distruggere i miei e i tuoi contorni e  minimizzare i dettagli del tuo processo d’apprendimento. Quell’accadere è anche il nero col suo buio ed è ciò che ti farà assumere la capacità del nulla, ti farà spegnere la capacità del tuo reagire. Anche se la mia e tua Terra ha tremato: «Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.»(Saramago)In questi giorni ho rischiato di diventare cieco, ma credo di esserlo sempre stato.

«È come essere immersi in un mare di latte ad occhi aperti»(Saramago).