il Chi

Il Chi dei Pazzi?

il nuovo romanzo di Antonio Errico edito da Manni Editore

di Francesco Pasca

 

Chi può mai esiliare uno de’ Pazzi(?) Chi l’ha esiliato(?) Perché è l’esiliato?

Chi è … ?
Per il me che ha letto, due “dubbi” e due “domande” per comprendere una Storia, non una Storia qualsiasi, ma ciò che il Tempo di un accadimento comporta e quanto, il Tempo, sia importante per poter sovrapporre, unire in legami temporali improbabili e da rendere attuali.
Vi è un’accorata e continua richiesta nel romanzo di Antonio Errico:«se tu venissi da queste parti». Il riferimento non è a caso. Lo ritrovo tra punti cardine della scrittura e continua:«Se venissi in una notte senza Luna …». Per il me che ha letto è nostalgia. Convinzione da far risvegliare in Lorenzo. È la nostalgia in cambio di una “conoscenza”. Il buio senza Luna è far conoscere l’abisso di pag. 100, è la sconfinata biblioteca di Casole. È il buio di ogni tempo e l’oscurità del sapere. È il libro, è il consegnato e il ricordo, è la lettura di Marsilio al capezzale del Vecchio Cosimo.
Ecco dunque la ragione di una necessità, ecco quindi la Congiura, quella iniziata di domenica e conclusasi di domenica, il 26 aprile 1478, nel giorno del Signore. (Nobilissimo Signore)
La probabilità sperata dalla ricca famiglia di banchieri in una Firenze Rinascimentale è parzialmente risolutiva per l’accaduto fra Pazzi e Medici, fra anime dal confronto diretto che, sul filo di una mano volta all’elevazione, trapassa mortalmente e anche ferisce.

Morrà qualcuno e si salverà qualcun altro. Un altro ancora andrà a cucire una nuova “Cronica” e ci sarà chi andrà a leggerla.
La Storia quando si scrive mai farà chiaro sulla Storia, né l’idea di uno stilo che la trapassa sapremo se nacque di fabbrica a Firenze piuttosto che a Roma, oppure per ragioni ancora più complesse in contado di Urbino per mano di un Montefeltro o ancor più giù in Campania ad opera di un re, di un Ferrante d’Aragona.
In quel torbido, nel potere temporale di un Della Rovere(1471), così come in quel probabile, non fu solo l’idea.

E lì, dove la storia è incerta, ecco spostarsi l’azione. Decisamente, è ancora più a Sud. Occorre far varcare i confini del Regno, farla rinascere in un’altra “Cronica”, quella scritta nel silenzio e punteggiata da trentasei: «Nobilissimo Signore, da questo esilio scuro, da quest’ora senza storia, da questo mio rifugio scavato in fondo alla memoria, da questa terra estrema sul confine di due mari, così, da qui, ti scrivo.»

Antonio Errico così inizia e dipana la sua Cronaca. Anch’essa, così, può diventare il rinascimentale in terra d’Otranto, al pari di quanto si ebbe a scrivere in quel tempo.
Errico abilmente s’adopera a scorrere con la musica del suo raccontare, coi suoni e nei distinguo della famiglia Medici, con la cadenza di un ritmo alla Poliziano: «tra un tempo andato e un tempo non venuto» o con il neoplatonismo allegorico del Botticelli così come ammirato nella rappresentazione di un Mercurio, di chi agita le nuvole e ne fa temporale o probabile tempesta da far scaturire non con il caduceo ma con la penna.
Così, com’è descritto nella stessa “Primavera”. Il romanzo di Errico è al centro del suo stesso “dipinto”, fa carola e, le infinite varietà floreali sono le stesse diversità che si incontrano e che si predispongono, sono le Grazie pronte per essere catalogate per famiglia e specie, per contenuti e metafore.

Il nostro Autore conosce bene i tempi che ogni azione comporta. Sa benissimo che l’azione si consuma nell’attimo, e che, chiunque sia a portala al compimento, ha bisogno del differenziarsi tra un prima e un dopo, tra un’altra storia e “il pentimento”, tra il potere e il destino, tra ciò che è tortuoso o lineare, tra l’amore e la morte, tra chi non ha vinto e chi crede di non avere avuto giustizia. Il romanzo ha tempi lunghi e frasi corte, anzi, cortissime. Lo sono perché scandite dalla necessità dall’ansia del Tempo. Nel medesimo ha anche date che non vorrebbero appartenere ad alcun Tempo o radici da non voler sostare su alcun suolo, ma se ne avverte il calpestio, è  comunque nel quotidiano dell’Autore, e può diventare, da sé, quel Tempo. Con questa sua ultima fatica, Antonio Errico duella tra due improbabilità. Della prima ne sente l’esigenza e questa ha la corposità dell’immagine. Da Poeta se ne appassiona costruendo la metafora dell’esiliato, della figura dominante nella Poesia e dominata dal destino, dalla passione e dalla ragione. Per questo motivo induce l’esiliato alla sofferenza della narrazione e lo induce al riscatto. L’esiliato sa che attraverso il nuovo stato e il nuovo luogo può osare e ritornare a raccontare pur sentendosi “ostaggio”, annusando continuamente lo spettro del potere. Antonio Errico è uomo di cultura, vive la Scuola, questa Scuola. La vive come quanti e con quanti l’avvertono e la soffrono nel trovarsi col disagio di una rivoluzione mancata di un “congiura” mai attuata. Sente fortemente che è costretto a “subire” come colpa. Ma attacca di fioretto. Bellissimo, e da leggere tutto d’un fiato, il passo di rivalsa tra l’undicesimo e il tredicesimo “Nobilissimo Signore”(pp.45-51). (Mi verrebbe da aggiungere nomi su nomi, anche di questa Terra. Nomi tanti. Tanti nomi). Qui viene letteralmente “ridimensionata” la poesia di Lorenzo. L’affondo è metafora splendida sulla cultura di facciata e di potere, del Min.Cul.Pop., della televisione, dei media: «Nobilissimo Signore, […] sei un lettore straordinario, un finissimo esegeta, un intarsiatore di versi. Ma non sei un poeta. […] Forse è il desiderio di poesia che ti mantiene in vita, […] In fondo tu lo sai che non basta la scienza, non basta lo studio, né la disciplina, sai che non basta la cura, né la perizia, che non basta possedere l’arte della rima […] non sei poeta, dunque. (pp.45-46).Errico non contento affonda ancor più lo scocco e riscatta la sua Terra, segna quel confine fra due mari, ne fa territorio di Rinascimento e lo ribatte colpo su colpo: «Nobilissimo Signore, avrei voluto che tu conoscessi l’uomo che io ho conosciuto qui, pochi giorni addietro. […] non so se tu ne avessi conoscenza. Quest’uomo si chiama Antonio Galateo. Tu dovresti conoscerlo, Signore»(pag. 50). Con questi e con tanti altri rimandi Errico cuce e introduce la necessaria presenza della Luce, di ciò che è necessario in tanto oscuro. Niceforo è la metafora presente sin dall’inizio del romanzo-racconto. Niceforo è l’indispensabile, «è il baleno di un enigma» «è un’angoscia», oppure «è un’estrema felicità». Antonio Errico sa bene che in ogni famiglia c’è un padre, sa delle donne vestite di nero, sa che “non c’è potere affrancato dal peccato”, sa della viltà, della misericordia, della fortuna e della disgrazia. Un Poeta sa dove sono i Pietro Alemanni, i Dionigi Pulci, i Pellegrino degli Agli, sa dove impazza la gioventù per gioire, per unirsi e per divedere. Per il me che ha letto, questo romanzo ha per inizio il trentunesimo dei “Nobilissimo Signore”. Errico sa di un altro intrigo. Sa di un altro nero e di tanti altri obblighi per cui obbedire, così come consiglia Tacito. Ubbidire e basta. Errico sa di una data che non è mai una qualunque, sa di Otranto, sa di un “allì 26 di luglio dell’anno 1480. Un dubbio spero di toglierlo nelle vesti di Guglielmo de’ Pazzi, degli altri a voi il leggere e lo scoprirete.