Guardare

Guardare il Tempo

di Francesco Pasca

Guardarsi intorno è volgere anche lo sguardo indietro e andare incontro all’innocenza della vita, a guardare nel ricordo ormai a noi non più prossimo. Avviene per dare certezza alle nostre immagini, ai particolari dominanti, ai percorsi già segnati.
Credo sia anche la necessità di misurare i livelli di gioia e di dolore, di ritrovare l’equilibrio che certamente vi è stato e ha condotto a quel particolare ricordo.
Pandolfini ce lo annuncia nel prologo e lo conferma nell’epilogo.
Il testo ben scritto, scorrevole nelle parole, conclude con: «… sono le premesse per costruire un futuro migliore.»
É un bel libro, l’ennesima avventura editoriale di Manni che diventa la fotografia per non perdere la memoria e assecondare la vita, misura altra vita.
L’avvertenza del Pandolfini è dichiarata per far abbandonare l’obliare, è per far portare anche al lettore lo sguardo intorno, per volgerci indietro, per ricordare.
Niente è epilogo. Il quanto, di quest’ultimo, è il perenne percorso legato al “destino” esterno ed interno al mondo di tutti noi, alla coscienza e all’intelligenza, alla storia fra bene e male.
Ho pertanto seguito il remoto e silenzioso consiglio dell’autore, ho letto anch’io adagiandomi sommessamente con il passo da lui dettato e sono stato sommerso dall’ambiente narrato. Il tracciato del romanzo sebbene si svolga nella Sicilia occidentale ha avuto eco a me vicina.
Le parole utilizzate hanno avuto suoni familiari e si sono scritti differenziandosi. Seggiari e concia brocche, quartare e brummmuli, trispi e scupetta, campiere e pizzini sono divenuti suoni antichi.
Credo che descrivere, per lo scrittore, sia la magia dell’andare incontro, con le parole, alle immagini. Nel romanzo i mezzi utilizzati non sono solo dello strumento scrivere, si adoperano anche sottili tessiture, si suggerisce l’oggetto che, da lettori spesso è inteso come metafora necessaria. Quando avviene è il regalo che fa lo scrittore al suo lettore. Infatti, a pagina nove,  l’autore regala un binocolo, lo strumento che porta vicine le cose lontane e, quest’ultime, diventano voci. Sono l’insieme delle Cose che fanno vicinanza nel ricordo.
Non tutto è gioia, vi sono frazioni temporali della nostra esistenza che si segnano anche nel dolore e si ricordano come il guardarsi una ferita, un’amputazione ricevuta.
Il 1943 per dei giovani protagonisti è l’età della ragione, è età anche del darsi ragione.
Alla distanza, la storia, ha loro descritto i molti perché di quel fatidico anno, spesso sono stati i perché vissuti dalle loro giovani speranze, che hanno avuto la smaniosa carica della curiosità, dell’attenzione alle cose ad altri sfuggite perché variamente impegnati o del tutto distratti. Il giovane oggi divenuto grande non vuole cadere nel tranello di sempre, vuole sfuggire alla logica della distrazione e scrive, ricorda.
Leggendo “l’innocenza della vita” ci si imbatte nell’incoscienza giovanile, nelle aspirazioni, nei rammarichi e nei distinguo dei differenti destini a cui si sarebbe potuto andare incontro. L’autore si sofferma e fa soffermare sulle scelte. L’autore compie una trascrizione di vita al di là del diario, infatti, i ricordi non hanno successione temporale ma sono avvicendamenti legati più ai significati. Gli episodi hanno contribuito a lasciare in lui i segni evidenti. Pasquale Pandolfini è saldamente ancorato fra date: 1943, 1947, 1950, 1953. L’autore ricorda i vent’anni appena compiuti, fa emergere la sua formazione docente fra quelle date e le raggruppa quasi per scaramantica convinzione del “destino” a loro legato.

Portella delle ginestre è l’uguale suono di una campanella per la formazione scolastica. Il crepitio e l’eco degli spari in una valle sono l’inizio e il percorso della fine di una storia. Il monte Pizzuta è il paravento che separa i venti che soffiano contrari all’eresia dell’essere comunisti o democristiani. Pizzuta è il suono del:« Jit at t’i kerset n’a xe se je vjen te Gryka et Spartavvet» (Tuo padre te le suonerà di santa ragione quando avrà saputo che sei venuto a portella delle Ginestre) oppure: «Teni, assettati e mancia ca oggi è festa pi tutti. Tu si nicu e a scriviri!”»

Pasquale Pandofini ricorda i suoi dieci anni, quel 1° maggio 1947, ricorda i suoni del complesso bandistico, il fiato di quelle trombe, i petardi delle feste mescolati al: «Scappate! … Ci sparano!»

Le parole esplodono in lontananza mentre lascia a noi quel binocolo e ci fa osservare tutto da lontano. Buona lettura!