“Gli sdraiati” Michele Serra

Arte e Luoghi/Libri

Un padre in cerca di suo figlio

di Luca Tenneriello 

Con “Gli sdraiati” Michele Serra, giornalista e autore televisivo di fama nazionale – sicché nello scrivere questa recensione mi sembra di essere un nano che cerca goffamente di descrivere un gigante – torna a impugnare la penna del romanziere con la stessa raffinatezza con la quale crea articoli, saggi e programmi televisivi.

“Gli sdraiati” è la storia, narrata in prima persona, di un padre alle prese con l’adolescenza di un figlio che sente incredibilmente distante da sé. Lui, il padre, cresciuto tra le mitiche letture di Topolino e le suggestive «luci delle barche sul mare» (p. 22), capace di stupirsi ancora oggi, da adulto, per il giorno della vendemmia nella tenuta di campagna o per un paesaggio mozzafiato ai confini tra la terra e il cielo.

Niente di tutto ciò per il figlio, assorbito da quel tunnel adolescenziale fatto di videogame e felpe griffate, partecipe di una «vocazione alla solitudine e al silenzio» (p. 70), incapace di provare quel genuino stupore di fronte a un tramonto; forse reso immune alla bellezza della vita, perché troppo intento a messaggiare con il cellulare.

 

«Ma dove cazzo sei?» (p. 11) L’irriverenza d’esordio è perdonata quando è il coraggioso tentativo di un padre divorziato in cerca di suo figlio. Sembra che vivano in due dimensioni differenti, pur abitando la stessa casa; non c’è comunicazione fra loro: vivono su frequenze diverse.

Forse l’unico modo per provare a riallacciare un rapporto è scrivere; “Gli sdraiati” sembra una grande, intensa e commossa lettera di un padre a un figlio che quasi non gli appartiene più. «Dormi. Nel tuo assetto classico, sul divano, in mutande, davanti alla tivù accesa. […] Il tuo profilo, ormai al valico dell’età adulta, mi sembra esitante, come se il bambino che sei stato lo reclamasse ancora per sé. Lo stravacco scomposto del tuo corpo perde evidenza rispetto al tuo viso intatto, ai suoi tratti puliti. […] Ho la nitida sensazione che questo – esattamente questo – sia l’ultimo istante della tua infanzia» (p. 20).

Due mondi differenti, forse antipodici, quello dei ragazzi e quello degli adulti, che si riflettono in un fittizio romanzo che il narratore ha nel cassetto: “La Grande Guerra Finale”, futuristica e immaginaria battaglia in cui l’esercito dei Giovani e quello dei Vecchi si fronteggiano in un estremo, ultimo combattimento, metafora dello scottante conflitto generazionale che assedia i cuori di genitori e figli.

«Dovresti venire con me al Colle della Nasca. Tu non hai idea di come ti piacerebbe. Tu non hai idea di quanto ti farebbe bene» (p. 25). La scalata al Colle della Nasca, «una stretta forca tra due cime aguzze di ardesia», idilliaco luogo di distacco dal mondo degli uomini, sembra la chiave di volta per ricostruire un legame tra i due. Duemilasettecento metri di fatica del corpo e ristoro dell’anima: «si sale, si sale, si sale» forse per lasciare a valle videogiochi, griffe e l’ideologia del “tanto così fanno tutti”, per abbracciare una realtà nuova. «Si suda e si tace», sì, si tace, perché si deve ascoltare la voce della natura.

Ma chissà se suo figlio potrà provare il minimo bagliore di meraviglia dinnanzi a un tale spettacolo? Sarà anche soltanto in grado di scalare una montagna? Lui, il figlio, abituato a stare «sdraiato sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole […] [con] la televisione accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale due fratelli obesi, con un lessico rudimentale, spiegano come si bonifica una villetta dai ratti» (p. 50). Ma come possono stupirsi delle meraviglie del cosmo dei giovani che hanno «gli occhi […] ficcati dentro il proprio video, credo per chattare con altri della vostra genìa, e quanto scorreva fuori dai finestrini, fosse anche la Grande Muraglia, il deserto rosso di Marte, un assalto di cavalleggeri, vi era del tutto indifferente» (p.43). “Indifferente”, forse è questo l’atteggiamento che, secondo Serra, enuclea il comportamento della gran parte degli adolescenti di oggi, omologati dalla stessa firma, dalla stessa capigliatura, dalle stesse scarpe, dalla stesso modo di biasciare qualcosa di appena sufficiente. Una «tribù» di cloni in cui è raro trovare qualcuno che la pensi in maniera diversa, perché, in fondo, meglio unirsi alla massa – è più accomodante, ci sono meno rogne a cui far fronte – che assumersi la responsabilità di essere se stessi – e questo sì che può risultare problematico.

Ma «non so cosa darei per potermi sedere con te, in un momento qualunque della nostra vita, davanti allo stesso paesaggio, e condividerne in silenzio la forma e l’ordine» (p. 45).

L’esito della Grande Guerra Finale è drammatico: una carneficina da entrambi gli schieramenti. Brenno Alzheimer – un nome che è tutto un programma – alter-ego del narratore, fantomatico generale dei Vecchi, tradisce il suo esercito, portandolo incontro al fuoco nemico, poiché è consapevole che la speranza è nei Giovani e non ha alcun senso decimarli, perché sono loro il futuro del pianeta. Ed è anche la speranza del nostro affannato papà-narratore, perché dopo pressanti inviti e accorate suppliche «un giorno ci sei venuto, al Colle della Nasca. […] Alla fine ci sei salito, e ci sei salito insieme a me […] sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. […] Io – non altri – sono quelle due sillabe» (p. 97; 107).

 

In una trama avvincente Michele Serra ha saputo porre l’accento sull’annoso conflitto generazionale tra genitori e figli, offrendo un dettagliato – e forse un po’ estremizzato – spaccato della vita dell’adolescente medio italiano. Con uno repertorio lessicale affinato da anni di esperienza giornalistica, si muove agilmente tra la fantasia del romanzo e i dati della realtà, non mancando di scoccare mirate critiche al consumismo sfrenato, all’ideologia del marchio, ma anche, più in generale, a ogni pretesa di assolutezza – un «totem inumano, feroce e castrante» – finanche alla religione e alla morale, cedendo talvolta a una spinosa irriverenza.

“Gli sdraiati” dà la sensazione di essere un’amplissima lettera personale, scritta da un padre a suo figlio, in cui convogliano burrascosi flussi di coscienza – quelli che Joyce chiamerebbe stream of consciousness – ed eloquenti scorci della società reale. Traspare a piene mani, inoltre, l’impianto del pensiero di Serra, fondato sul “pensare differente” e alieno da ogni pretesa di verità assoluta: «io sono un borghese di sinistra» (p. 104).

Emozionante, profondo e incisivo, “Gli sdraiati” suggella ancora una volta la stretta confidenza che Michele Serra ha intavolato con la sua penna – legame che va avanti, ormai, da quasi quarant’anni.

 


 

Michele Serra

Michele Serra è nato a Roma, il 10 luglio 1954. Trasferitosi con la sua famiglia a Milano, conseguì la maturità al liceo classico Manzoni. In seguito frequentò la facoltà di Lettere Moderne, ma si ritirò dopo tre anni. Iscrittosi nel 1974 al Partito Comunista Italiano, inizia la sua carriera nel quotidiano L’Unità l’anno dopo, prima come dimafonista, quindi come redattore. Ben presto è chiamato a scrivere corsivi che non facciano rimpiangere quelli di Fortebraccio, come si firmava il giornalista che aveva avuto, fino a allora, questo compito. Michele Serra affronta qualsiasi argomento con una buona dose di ironia, caratteristica che gli valse una collaborazione con il settimanale satirico Tango, allegato de L’Unità. Nel 1988 Tango cessa le pubblicazioni, ma lui è chiamato da Massimo D’Alema a dirigere un nuovo inserto satirico, Cuore, destinato a diventare una rivista a se stante. Nel 1989 pubblica il suo primo libro di racconti Il nuovo che avanza.
Nel 1991 aderisce al Partito Democratico della Sinistra (PDS), ma ben presto lo lascerà, anche se mai rinnegherà gli ideali del comunismo.
Negli anni ’90 collaborerà alla stesura dei testi per gli spettacolo teatrali di Beppe Grillo e Antonio Albanese e parteciperà, come autore e collaboratore, anche a diverse trasmissioni televisive, tra le quali Cielito Lindo, apparendo in video con una sua rubrica che ironizzava sulla pubblicità.
La chiusura del quotidiano L’Unità, avvenuta nel 2000, lo farà infuriare: aveva iniziato nel 1996 a collaborare con La Repubblica e proprio da lì tuonerà pubblicamente contro questa decisione.
Dal 2003 fa parte del gruppo degli autori di Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio.
Tra le sue opere, ricordiamo: Il ragazzo mucca (1987), Cerimonie (2002) e L’assassino (2013) pubblicato solo come e-book.