Riflettendo su “Il deserto dei tartari”

I luoghi della parola|piccola riflessione su “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati

IL DESERTO DEGLI ATTIMI

di Leo Tenneriello

 

Ci sono romanzi che mi somigliano: “Il deserto dei Tartari” è uno di quelli.

Sto con Giovanni Drogo quando riceve finalmente la nomina di ufficiale: “il giorno atteso da anni, il principio della sua vera vita […] libera e presumibilmente felice”. È il giorno dell’entusiasmo, dell’ottimismo, del sentire di avere davanti una grande vita, del tempo che promette.

La sua destinazione è la Fortezza Bastiani, ultimo distaccamento a Nord di chissà quale Nulla, sperduta in una pianura avvilente chiamata il “deserto dei Tartari” perché in un remoto passato era stata arena di tragiche scorribande.

Se mai lo fosse stata, ora nessuno la considera più così strategica. Né i nemici, né gli amici. È solo una costruzione, un vecchio edificio sperduto su un’altura dimenticata, niente di più. Pochi sanno che esiste. “È una fortezza di seconda categoria, una frontiera morta, che non dà pensiero, che non serve a niente”.

 

La Fortezza Bastiani è la vita che mi tocca vivere. È il destino e la destinazione che il caso mi ha assegnato. È la scelta imposta. È la vita controvoglia. È il tempo che promette e che non mantiene.

Il viaggio per raggiungerla è lungo. La fatica amplifica l’attesa per chissà quale meraviglia. Ma “la via che si arrampicava a zig zag” conduce ben presto a una pungente e raggelante delusione. Appena arrivato Giovanni “stava pensando alla vita che lo attendeva, si sentiva estraneo a quel mondo, a quella solitudine, a quelle montagne”.

Dall’incanto alla disillusione. Dall’entusiasmo al disincanto. “Tutti là dentro parevano essersi dimenticati che in qualche parte del mondo esistevano fiori, donne ridenti, case allegre e ospitali. Tutto là dentro era rinuncia, ma per chi, per quale misterioso bene?”.

Giovanni vuole fuggire. Vuole ritornare indietro, ma deve aspettare la visita medica periodica e sperare in un falso certificato medico per farsi rispedire a casa.

In quel periodo di attesa Giovanni subisce, senza rendersene conto, la seduzione della vita della Fortezza. Le regole avulse dalla ragionevolezza, le norme inflessibili della vita militare, lontane dal buon senso, colmano un vuoto esistenziale. La noia è come il canto delle sirene che ammalia e inchioda i militari in quel posto. Altrove, forse, sarebbero quello che sono: esseri in balia del non essere. Lì il nulla ha le sembianze del rigore, del dover rispondere a chissà quale elezione, a quale missione. Il Nemico può apparire all’improvviso, all’orizzonte e la battaglia è il parametro di misura e di confronto con la realtà alla quale dimostrare il proprio valore. Per ottenere il riconoscimento di uomini veri bisogna combattere. Il Nemico immaginario è il senso ultimo di un’esistenza vuota gettata via ai confini della vita.

L’esaltazione lascia subito il posto all’oppressione della solitudine, frutto di una notte insonne, fino a realizzarne il significato profondo: “molte volte egli era stato solo […] ma adesso era una cosa ben diversa, […] Adesso sì capiva sul serio che cosa fosse solitudine (una camera non brutta, tutta tappezzata di legno, con un grande letto, un tavolo, un incomodo divano, un armadio) […]  nessuno in tutta la Fortezza pensava a lui e non solo nella Fortezza, probabilmente anche in tutto il mondo non c’era un’anima che pensasse a Drogo; ciascuno ha le proprie occupazioni ciascuno basta appena a se stesso”.

In quegli attimi statici, in “quello smisurato mare immobile” sentiva lavorare dentro di sé una “forza sconosciuta” che lo tratteneva in quel luogo in cui vedeva già consumare la sua giovinezza.

A volte anche io ho la sensazione che abiti dentro di me una presenza oscura che mi fa piacere quello che non mi piace, che mi inchioda lì nella mia prigione e che quasi mi restituisce un senso di appagamento.

I sentimenti sono contradditori; si alternano esigenza di discontinuità e di stabilità. Due giorni dopo Giovanni ha il comando della terza ridotta, quella delle mura che danno a Nord, e “così, mentre veniva il buio, si impadroniva nuovamente di Drogo il desiderio di fuggire”.

Il capitolo VI del libro descrive il profondo senso di disagio e di conflitto interiore. Giovanni cerca conforto in una lettera da inviare alla madre raccontandole del malessere che vive nella Fortezza “a chi altri se non alla mamma poteva dire la verità? […]La verità era la stanchezza del viaggio, l’oppressione delle tetre mura, il sentirsi completamente solo […]La Fortezza è malinconica, non ci sono paesi vicini, non c’è nessun divertimento e nessuna allegria. Questo le avrebbe scritto”.

Però gli pare sgarbato e inutile farla preoccupare e alla fine scrive “la fortezza è grandiosa”. Perché caricare la mamma di un dolore già per lui difficile da gestire?  Il suo sollievo sarebbe stato un turbamento per la lei.

 

No, neppure con la mamma poteva essere sincero, nemmeno a lei confessare gli oscuri timori che non gli lasciavano pace”.

 

Segue la riflessione topica, centrale, magnifica del romanzo “proprio quella notte cominciava per lui l’irreparabile fuga del tempo. Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo. […] Ancora molto? No […] Per qualche istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare: Poi si sente che il meglio è più avanti e si riprende affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il fiume dell’orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire”.

 

Giovanni si addormenta e io con lui. Non svegliatemi, guai se potessi vedere me stesso “come sarà un giorno, là dove la strada finisce”. Tanto ci pensa l’abitudine con le sue piccole, grette e “misere cose” a farmi apprezzare l’accumulo di attimi, di “fuga del tempo” che “inghiottisce i giorni uno dopo l’altro, tutti simili, con velocità vertiginosa”.

 

È l’abitudine del capitolo decimo del Deserto che lega Giovanni alla Fortezza. Decide di rimanere arrendendosi al richiamo annientante di quelle mura. Sceglie di non scegliersi più. Baratta la ricerca della felicita per la certezza.

 

Aspettando la “grande occasione” la vita passa così come l’occasione attesa da sempre.

 

Giovanni è malato e deve fare spazio ai nuovi ufficiali ed è fuori dai giochi, fuori dalla fortezza e dalla guerra, che finalmente si concretizza, contro il regno del Nord.

 

La fuga del tempo è finita, “il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente […] La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto”.

 

Muore solo. Rassegnato e tranquillo. Negli attimi conclusivi della sua vita, realizza che il suo alto compito in realtà è affrontare con dignità la Morte e aspettandola “raddrizza il busto”.

 

Sconfiggendo la paura di morire, Giovanni ottiene quel riconoscimento sul campo di battaglia della vita dove dimostra finalmente il suo grande valore di soldato e di uomo. Muore in pace con se stesso e con la sua storia.

 

Non c’è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo”, ma lui è lì pronto a ricevere e sfidare “l’ultimo nemico”; solo nella sua stanza “nel buio, benché nessuno lo veda, sorride” prendendosi gioco della Vita e della Morte.