Sopraffactions. Quando l’arte è sopraffazione
di Giuseppe Salerno
Essendo il mondo la risultante dell’inesorabile processo naturale di trasformazione delle cose nonché dei continui interventi dell’uomo sul preesistente, non vi è alcuna ragione perché l’arte abbia a essere intoccabile e “per sempre”, sottraendosi così ad una legge fondamentale dell’esistenza.
Con questa consapevolezza, Luigi Ballarin, Gerardo di Salvatore e Lughia realizzarono nel 2009 quattro opere ciascuno perché divenissero oggetto tra loro di scambio e di successivi interventi. Non lavori a quattro mani ma vere e proprie elaborazioni su opere preesistenti dove tutto era consentito: dal cancellare totalmente le tracce del precedente lavoro, al salvarle in parte integrandole poi a proprio modo.
“Sopraffactions” (questo il nome della mostra) attraversò nell’arco di cinque anni altrettante regioni italiane facendo tappa a Roma, Fabriano, Cosenza, Salerno, Viterbo e Matera. Ad ogni tappa 3 nuovi pittori si aggiungevano replicando il medesimo processo e dando vita a 12 nuove opere nel formato 100×100, sino a raggiungere i 18 artisti con 72 opere.
Itinerante e contaminante l’operazione è l’evidente metafora dell’esistenza. Non vi è alcunché che nasca dal nulla e la vita è un’inarrestabile divenire. Facendo agio su concetti facilmente condivisibili, Sopraffactions metteva in discussione la consolidata concezione sacrale dell’arte.
Artisti dell’arte visiva e performer, Luigi Ballarin, Gerardo di Salvatore e Lughia da tempo giocano con la propria immagine e tra il 2006 ed il 2012 sono i protagonisti sulle cover di “The Best in Art”, pubblicazione che si prende gioco di questa nostra società superficiale dove immagini di copertina, titoli e sottotitoli muovono opinioni e determinano consensi. Oltre 20.000 destinatari (artisti, critici, collezionisti, fondazioni, giornalisti, appassionati e gallerie d’arte) ricevettero via email le 65 cover di quella che si autodefinì la prima rivista al mondo che non esiste.
Performer dunque e sopraffattori, è di quest’anno la loro presenza a Venezia dove Damien Hirst ha occupato vistosamente la scena tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi. Con ironia i tre artisti accostano la piccolezza del proprio esserci in veste di visitatori alla spettacolarità di una narrazione messa in scena con ingenti spiegamenti finanziari.
Una vicenda fatta anche di menzogna quella dei tre performer che si trovano ad interagire con pezzi di una altrettanto menzognera mega storia. Ed è così che torna ancora una volta a proporsi il gioco del fare-sopra.