Mirò lo stupore dello sguardo
“Joan Mirò: Poesia e luce”
Un viaggio nell’arte attraverso lo sguardo di un bambino
di Patrizia Miglietta
Le opere di Joan Mirò, il pittore catalano (Barcellona 1893 – Palma di Maiorca) giungono a Roma al Chiosco del Bramante, dal 16 marzo al 10 giugno, in un’esposizione davvero interessante.
L’alchimista, l’iconografico che preferisce i numeri pari perché quelli dispari gli mettono tristezza, si accosta prima al movimento Dada e successivamente a quello Surrealista. Ha contatti con poeti e letterari, lo scambio culturale è sinonimo di profonda ispirazione.
I suoi gesti iniziali sono istintivi sulla tela, c’è ben poco di premeditato. Tutto prende forma in modo spontaneo come un giardino lascia che sia il corso della luce sui fiori a coronarlo di bellezza. L’artista si definisce un giardiniere dell’arte, in effetti nel 1956, l’esigenza di un rapporto con la terra, con la natura intesa come fonte di vita, lo spinge a trasferirsi in campagna, a Maiorca, il luogo in cui trova l’ispirazione per il resto della sua esistenza, e dove finalmente, grazie al suo intimo amico architetto Josep Lluis Sert, realizza il sogno di avere uno studio d’arte tutto per sé. Lo studio divenne il suo orto, l’esplosione della sua personalità, e fu appositamente realizzato rispondendo alle sue esigenze e caratteristiche cromatiche affini ai dipinti, con grandi finestre che potessero far entrare luce necessaria alla creazione di enormi capolavori. Nella mostra è allestita una sala che rispecchia fedelmente il luogo così come lo ha lasciato alla sua morte, con pennelli, tele, tavoli, oggetti a cui si ispirava, e la sedia a dondolo su cui Mirò meditava e coltivava pensieri e idee in relazione al mondo.
Oltre alla natura , alla terra, ad ispirarlo è ogni cosa, ogni frammento, ogni oggetto raccolto, ogni pennellata data a caso o per sbaglio, tutto può esser l’inizio di un percorso creativo. Per il Carnevale di Arlecchino Mirò fece molti disegni basati sulle allucinazioni che la fame gli provocava. Vetro, carta, legno, compensato, masonite, carta vetrata, giornali, carta per il pane che la moglie porta a casa dalla spesa, sono gli strumenti su cui lavora.
Con i bronzi entriamo nel mondo surreale degli oggetti. Mirò si appropria di tutto ciò che trova fortuitamente per poi assemblare i pezzi creando forme, donne, equilibriste con zucche, lattine, vasi, barattoli. Tra i bronzi: “Uccello appollaiato su un albero” 1970; “Donna”, 1969 ; “L’equilibrista”.
L’arte di Mirò è un viaggio attraverso gli occhi di un bambino. Comunica in sintesi, è essenziale e non pretende comprensione ma meraviglia, spontaneità dello sguardo, dello stupore.
Grandi tele, la maggior parte senza titolo, si aprono nei colori primari del blu, del giallo e del rosso, del bianco e nero. La luna, uccelli, stelle, mostri, cerchi, figure fantasiose, figura stilizzata della donna, ogni elemento è raffigurato con un linguaggio fatto di macchie, grafismi, abrasioni, chiodi, ed impronte per una pittura ancora più immersiva, piena di umanità.
Ispirato da paesaggi notturni, spazi vuoti, monocromi, nella serie in bianco e nero si può ammirare su tela “Donna nella via“ , 1973 – in cui si nota una figura (femminile) simile ad un simpatico grillo di vivace bellezza in attesa narcisistica, ed intorno impronte di mani; altri dipinti, senza titolo, con figure mostruose della notte con bocche aperte inorridite che urlano dolore; e poi “Donna nella notte:donna cattura un uccello”, 1973 – e qui ce ne vuole di fantasia!
Non disorienterebbe affatto l’analisi critica se i suoi dipinti fossero teneramente più comprensibili al mondo dei piccoli osservatori incuriositi che non alla freddezza e razionalità dell’adulto. Attraggono, stupiscono quei tratti facili e lineari, raggiungono la collettività in una dimensione sognante e poetica in cui le immagini si svelano non chiare, indefinite e incantatrici come da percezione onirica e fiabesca. Eppure, nella sua istintività, Mirò non si ritiene un astrattista. Ogni immagine, seppur essenziale e apparentemente incomprensibile, ha un punto d’inizio, per poi scomporre la realtà sino alla distruzione e alla disintegrazione dell’immagine stessa da ridurla a schizzi e macchie, una lettura pittorica scaturita da impulsi, gesti, tratti a volte anche trasgressivi.
II maestro “popolare” che volle raggiungere la collettività affinché l’arte fosse di ampia accessibilità e si manifestasse in ogni parte del vivere, ha lo sguardo sempre rivolto all’arte primitiva, ai graffiti, espressione dell’immediatezza e della visibilità comunicativa perché fruibile da tutti. Perseguì i suoi obiettivi di diffusione con progetti di opere pubbliche, urbanistiche, intrattenendo rapporti professionali con architetti, con cui condivideva la convinzione che fosse necessario compenetrare l’arte e l’architettura. Ciò che è arte per Mirò è umanità, è vita.
“Il quadro dev’essere fecondo. Deve far nascere un mondo” (J. Mirò 1959)
(mostra visitata il 16 maggio 2012)