Gli scatti di Ines Facchin

l’invisibile non è in contraddizione

con il visibile: del resto il visibile ha una

struttura interna invisibile e l’in-visibile

è l’equivalente segreto del visibile


Maurice Merleau-Ponty

 

 

 

 

PER INVISIBILIA AD VISIBILIA

Quei particolari impercettibili e misteriosi

di Toti Carpentieri

In quel gioco delle coincidenze che ci affascina da tempo, in quanto legato alla costruzione degli eventi ma anche all’ineluttabilità delle infinite traiettorie del caso, può accadere che il critico aduso alla comprensione dell’immagine, ma esercitato anche nella lettura del testo, d’improvviso leghi l’uno all’altra e viceversa, senza che vi sia alcun reale rapporto didascalico tra loro. Ovvero che l’una raffiguri il percorso delle parole, o che l’altro spieghi quanto rappresentato.

Come, in realtà, ci è capitato di recente facendo scorrere i mille e mille scatti fotografici che Ines Facchin ha realizzato, muovendosi da un paese all’altro e da una città all’altra, negli ultimi cinque anni. Fermandoci sul singolo file talvolta, talaltra ponendoli l’uno dopo l’altro in sequenza nella logicità di una successione numerica priva, almeno per noi, di qualunque riferimento che non fosse quello delle cifre e del capolettera.  Complice, forse, quel memorabile ritratto in bianco e nero che Elisabetta Catalano volle fare ad Italo Calvino seduto di sghimbescio sulla sedia, e con cui, da anni, dialoghiamo silenziosamente. Noi vaganti nel quotidiano spazio personale popolato da memorie, da tracce presenti e da suggestive e futuribili ipotesi, l’altro immobile sulla bianca parete … pronto ad uscirne fuori. E ci torna alla mente quella frase de “Le città invisibili” che afferma: “Viaggiando ci si accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti”; precisando, se mai ve ne fosse bisogno, che Marc Augé si riferisce a ben altre non-identità.

 

Ed ecco, allora, che il critico, travolto e sconvolto dalle immagini della fotografa/architetto, si appropria, per tutta una serie di motivazioni al personale (non ultime il suo nascere e il suo crescere a contatto con la fotografia chimica, il suo muoversi professionale tra arte e scienza, il suo sottile e profondo legame con i numeri e quel suo temporaneo permanere a Torino proprio lì dalle parti di via Umberto Biancamano agli inizi degli anni Settanta) della struttura del romanzo dello scrittore di Santiago de Las Vegas, e su di essa costruisce questa mostra personale di Ines Facchin da leggersi come la coincidenza dei desideri: quelli dell’artista, quelli dello stesso critico, e infine e probabilmente quelli di tutti gli altri cui capiterà di vedere la mostra, o di sfogliarne il catalogo.

 

Così ben oltre l’impianto letterario dei nove capitoli che lasciamo, ovviamente, al romanzo, eccoci, affascinati dai numeri e dai loro magici significati (il cinque con il suo simboleggiare l’anima e il centro –l’essere tra l’uno e il nove-, il potere dell’uomo e l’energia di chi inquieto riesce a guardare verso l’ignoto, e quindi l’undici –il primo numero mastro– la cifra dei creativi e della forza oltre che della rivelazione, della conoscenza e della comprensione), intenti nella scelta delle cinquantacinque fotografie di altrettante città, e nell’avvertita, logica e pressoché ovvia necessità di suddividerle a cinque a cinque in quegli undici gruppi di calviniana ricordanza che al termine città (tutte al femminile da Berenice a Pentesilea, tra allusioni e fantasie) accoppiano parole come memoria, desiderio, segni, sottili, scambi, occhi, nome, morti, cielo, continue, nascoste. Guardando, ben oltre i lemmi, alle emozioni. E facendo sì che il tempo e lo spazio, alla fine, possano essere soltanto particolari irrilevanti ed insignificanti. Come accade anche a noi, pur se nei confronti delle immagini della fotografa/architetto.

E se è vero, come è vero, che le fotografie devono raccontare delle storie, ecco che gli sguardi sulle città di Ines Facchin (fermandosi, in piena adesione al pensiero di Maurice Merleau-Ponty, sul visibile e sul percepibile) indirizzano la nostra mente e il nostro sguardo sul non visibile di cui il visibile è intessuto, consentendo alla sua fida Leica V-Lux 2 di scoprire sempre qualcosa di nuovo, di fermare stabilmente (rifiutando ogni successiva manipolazione digitale) ciò che l’occhio non ha ancora percepito, guardando, tra analogie e diversità, modalità cromatiche nuove ed antiche, osmosi di forme e di colori, al dettaglio (il segno, il colore, la forma, l’insieme e la texture) come la parte per il tutto. Rapportandoci con lo spazio, fino ad identificare il corpus del luogo ben oltre la sua irriconoscibilità, e conferendogli la dimensione del concetto.

Non è quindi casuale che, al pari delle città metaforiche di Calvino, le cinquantacinque foto degli altrettanti luoghi di Ines Facchin (una che, per dirla con Marcovaldo, avendo l’occhio “trova quel che cerca anche a occhi chiusi”) con cui abbiamo voluto costruire questa mostra e i loro undici percorsi, ci portino con immediatezza e semplicità nel territorio dell’invisibile e del fantastico, lasciando alla intangibile concretezza dell’immagine urbana –il suo essere la tessera di un puzzle di ricordi e di desideri- la possibilità di ritrovare quelle dimensioni nascoste che ci appartengono, godendo di essa, nel segno di Marco Polo, non “le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”.

Fino alla riconquista della memoria smarrita, e quindi dell’essenza delle cose e della pura emozione.

 

(prefazione in catalogo, edizioni il raggio verde)