La chiesa di Santi Niccolò e Cataldo, una testimonianza del romanico pugliese
di Sara Foti Sciavaliere
LECCE. Costruita extra moenia – oggi annesso al cimitero monumentale di Lecce – la Chiesa dei Ss.Niccolò e Cataldo è il complesso architettonico meglio conservato e più significativo di età normanna nel capuologo salentino, dove di fatto le incisioni nella chiara pietra locale ci rimandano quasi sempre alla seicentesca moda barocca.
Insieme all’attiguo monastero, fu fondata da Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce e ultimo re di Sicilia. La costruzione si fa risalire a poco dopo il 1169 quando Tancredi, di ritorno dalle imprese orientali al servizio di Guglielmo il Buono, sarebbe scampato a un naufragio sul Canale d’Otranto: a questo fortunato epilogo si attribuisce la volontà del re normanno di intitolare la chiesa ai Ss. Niccolò – protettore dei navigatori – e Cataldo – santo irlandese, protettore di Taranto –, seppure non sarebbe neanche azzardato ipotizzare che nella meravigliosa Chiesa dei Ss. Niccolò e Cataldo ci fosse l’intenzione di Tancredi riallacciarsi alla stagione delle grandi imprese costruttive di Sicilia: Palermo, Monreale, Cefalù, facendosi sintesi dunque delle esperienze bizantine, arabe e normanne. Tancredi donò poi il complesso ai monaci benedettini, ai quali seguirono nel 1494, per volere di Alfonso II di Napoli, i padri Olivetani che rimasero sino al 1807.
La facciata mostra sia la severità del romanico pugliese che l’esuberanza del Barocco. Nel 1716 gli Olivetani intrapresero di fatto un radicale intervento di ristrutturazione dell’edificio. La facciata venne rifatta da Giuseppe Cino in puro Barocco leccese conservando, di quella originaria, solamente il pregevole portale e il rosone. Il prospetto fu arricchito da dieci statue lapidee e da un monumentale fastigio di coronamento in cui svetta lo stemma degli Olivetani, costituito da una croce e dai rami d’ulivo. I fianchi della chiesa si allungano, a destra, nel cinquecentesco chiostro dovuto a Gabriele “Beli” Riccardi, adorno del seicentesco baldacchino sovrastante il pozzo posto su quattro colonne tortili, e, a sinistra, nell’area ottocentesca del cimitero. Osservando la chiesa dal fianco meridionale è possibile osservare il campanile a vela con la meridiana e la cupola.
L’interno della chiesa, a tre navate suddivise da pilastri quadrilobati con arcate a profilo acuto d’ascendenza islamica, è impreziosita da una folta serie di capitelli a fogliame strigilato. La navata centrale è ricoperta da una volta a botte, mentre quelle laterali hanno una copertura con volta a crociera ogivale. In corrispondenza del transetto si innalza una cupola ellittica impostata su un tamburo ottagonale. È immediato all’interno l’impatto con le superfici affrescate, o meglio con i tratti superstiti di quelle pitture murarie che in origine dovevano rivestire per intero la superficie interne del tempio. Nel XVII secolo le decorazioni pittoriche sulle colonne e sulle pareti furono imbiancati o ricoperti da altari, invece quelli della volta furono intonacati o ridipinti con decorazioni in stile pompeiano.
Il programma decorativo tardogotico si estende dalla controfacciata ad almeno le due prime campate delle navate laterali: si tratta di “una sorta di edificante galleria con i santi protettori e la narrazione delle loro vite esemplari” che sono state trascritte ricorrendo all’uso dell’icona agiografica, ossia immagini in cui la figura centrale del santo è contornata da scene destinate a illustrare le gesta e i miracoli del personaggio rappresentato. La cornice narrativa qui rappresentata, intorno al santo ex cathedra, ha la funzione di riprodurre la vita e i miracoli operati. I protagonisti sono san Benedetto e san Nicola, mentre manca San Cataldo la cui immagine, frammentaria, e relegata sulla retro facciata, a sinistra del portone, anche se non può escludersi che in altra parte della chiesa fosse celebrato con pari dignità, senza purtroppo magari lasciato traccia.
Nella seconda campata della navata settentrionale è rappresentato San Benedetto ex cathedra con il pastorale nella mano sinistra, mentre sotto le vesti pontificali che indossa in quanto abate di Montecassino, indossa il saio nero dell’Ordine da lui stesso fondato. La porzione superiore del dipinto, soprattutto la parte centrale, è andata distrutta a causa dell’addossamento di un altare, oggi non più esistente. La prima scena, in alto a sinistra, rappresenta San Benedetto in eremitaggio a Subiaco; il secondo riquadro inscena l’Arrivo a Montecassino. Una lunga iscrizione di impossibile decifrazione dipinta su otto righe – ma in origine dovevano essere almeno dieci – precede l’ultimo riquadro di sinistra, dove una sequela di santi dell’Ordine è ritratta in preghiera verso la perduta figura di San Benedetto. Essi sono rappresentati per categoria, secondo la gerarchia della Chiesa romana tardo medievale: in testa è il Papa (forse Gregorio Magno), seguito da due vescovi, in seconda fila vi sono poi tre santi monaci, e nascosto tra queste figure se ne scorge una priva aureola, che secondo Maria Stella Calò Mariani poteva essere l’anonimo committente. L’ultimo riquadro in basso a destra, invece, racconta la morte di San Benedetto visto salire in cielo. Sulle fasce dei semipilastri che delimitano l’affresco si nota una fitta ramificazione di tralci vegetali che richiamano quelli profusi su colonne, pilastri e costoloni nel cantiere di Santa Caterina a Galatina, autentico capolavoro della pittura gotica nel Salento.
Nella navata meridionale, in esatta corrispondenza con l’affresco di San Benedetto, è impostato quello di San Nicola, del quale si leggono attualmente solo il bordo drappeggiato della veste, il pastorale e la pedana del trono. Delle numerose storie realizzate nei riquadri laterali ne restano soltanto due, inscenate nel registro più basso che fanno riferimento a due interventi miracolosi operati dal santo di Mira.
Nelle navate laterali sono, inoltre, presenti alcuni altari attribuiti a Mauro Manieri, tra cui quelli intitolati ai santi Benedetto, Bernardo Tolomei e Francesca Romana e quello dei santi Niccolò e Cataldo. Al XVII secolo risalgono il monumento sepolcrale del poeta epico leccese Ascanio Grandi e gli affreschi del coro (1619). Di pregevole valore artistico sono anche la statua di San Nicola benedicente, nella navata sinistra, e due acquasantiere, tutte opere realizzate nel XVI secolo e attribuite al Riccardi.
Una delle due acquasantiere, poste in posizione speculare nelle prime due colonne della navata centrale, riporta scolpito sul fronte della vera una sirena bicaudata. Questa immagine ha tradizione antichissima che affonda nel mondo pagano conservandosi poi nell’arte medievale: l’ostentazione dei genitale era considerata con un valore apotropaico, finché non vengono esorcizzati dalla Chiesa perché messi in associazione con il peccato universale. Numerose sono però le chiese romaniche irlandesi dove, su capitelli, e bassorilievi, sono raffigurate figure femminili che, con le mani, divaricano le gambe mostrando così la vulva, e simili raffigurazioni troviamo anche in Francia e in diverse chiese italiane; tuttavia, in una società fortemente “pudica” come quella medievale questo genere di raffigurazioni non era accettabili, da qui la sua evoluzione: la donna diventa una sirena bicaudata, in cui le gambe divaricate si trasformano così nelle due code. La sirena bifide è un simbolo ben lontano dal provarsi delle sue origini pagane, riproponendo comunque, seppure sotto altre vesti, l’antica dea della fertilità e delle acque, elemento ben evidenziato proprio dalla coda di pesce. E non è di fatti un caso se nella Chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo è rappresentata proprio sull’acquasantiera.