A Campi salentina arte sacra tra prodigi e misteri
La Collegiata e la Chiesa di S.Oronzo tra i tesori del comune salentino
Sara Foti Sciavaliere
Sembrano guardarsi a pochi passi, come madre e figlia, l’una di fronte all’altra, sulla piazza principale di Campi Salentina, la Collegiata di Santa Maria delle Grazie e la Chiesa di S.Oronzo. Il dibattito sul luogo di culto più antico del paese nel nord del leccese non ha portato ancora a nulla di certo. Sicuramente in principio c’era l’antica cappella sulla collina della Madonna dell’Alto, oggi in una proprietà privata in campagna, ben lontana dall’abitato, alla quale si riferivano gli abitanti dei villaggi di Afra e Bagnara, prima di essere costretti a un “esodo” a causa delle scorrerie dei Saraceni, nel X secolo, verso quella depressione dove nascerà poi l’attuale paese.
Qui secondo alcuni studiosi la chiesa più antica potrebbe essere stata quella di Santa Maria degli Angeli o quella di San Francesco d’Assisi, nel rione Conza, che pare sia il nucleo fondante del paese. Ma gli esperti non sono tutti unanimi in questa congettura, e c’è chi vorrebbe proprio nella Collegiata la sua prima chiesa, non nelle sue fattezze odierne naturalmente, ma guardando a un’edificazione di molto precedente, testimoniata da un’intrigante rinvenimento fatto nel 1980. Erano in corso delle ricerche sulle strutture cinquecentesche affioranti nell’impianto seicentesco, per accertare l’esistenza di una serie di colonne in carparo integrate nelle navate laterali, e fu così che, nello spessore della muratura perimetrale a nord-est, verso la porta della Tramontana, sono emersi i resti di quella che è stata definita nel tempo la “cappella gotica”. Una cappella dalla volta costolonata e affreschi di profeti e motivi decorativi, insieme allo stemma gentilizio della famiglia feudataria dei Maremonti, ai quali si deve anche attribuire la fondazione dell’edificio sacro, databile all’incirca al 1380. La distruzione della cappella, e forse dell’intera chiesa, doveva essere avvenuta verso la fine del 1400 e gli inizi del secolo successivo, periodo in cui si attesta l’edificazione da parte di Belisario, ultimo dei Maremonti, la nuova chiesa ancora oggi esistente, seppure nelle modifiche subite nel corso del tempo.
Di Belisario Maremonti vi è anche il cinquecentesco monumento funerario, situato sino al 1683 nella cappella di S.Agnese, oggi collocato in controfacciata (sulla destra, entrando dal portale maggiore). Le cappelle laterali, che furono aggiunte – insieme alle due navate minori – nel rifacimento voluto dal barone Maremonti e poi dalla marchesa Donna Maria Paladini, e anche altre notevoli aggiunte effettuate del ’700, hanno una linea baroccheggiante, che sostituisce le linee purissime del ’500. Ogni cappella accoglie la sepoltura di una o più famiglie che si sono succedute nel patronato, mentre le sepolture comuni sono distribuite nella navata centrale. All’interno della chiesa sono da ammirare anche il battistero e il pulpito: entrambi in legno intagliato, ricoperto in oro zecchino, e di uguale fattura era l’organo che, purtroppo, andò distrutto nell’incendio del 1902.
I fondatori della vecchia “Campie” portarono dai loro villaggi anche le loro immagine sacre e i riti della loro fede, e in particolare un Crocifisso scolpito in legno di perastro, eredità dei monaci basiliani che avevano abitato antiche grotte scavate lungo le pendici delle colline. Quel miracoloso crocifisso, venerato per lunghissimo tempo e conosciuto solo grazie a una fotografia del 1876, andò anch’esso in fiamme nel tremendo incendio scoppiato nella Collegiata tra il 3 e il 4 maggio 1902. Al suo posto, nella cappella di fondo della navata di destra fu offerto al culto dei fedeli un nuovo Cristo ligneo scolpito da Luigi Guacci nel 1913, che conosce momenti di devozione popolare nei periodi di estrema siccità o altre gravi calamità atmosferiche, quando l’effige veniva trasportata in processione verso la collina della Madonna dell’Alto, per ricollocarla nell’omonima chiesetta romanica da dove era stata portata via dai profughi di quelle contrade. Un culto che si è rinnovato anno dopo anno nella solenne festività del 5 maggio.
Accanto a quest’altare si apre la porta della sacrestia che si mostra come una piccola pinacoteca. Tra i dipinti qui conservati attirano l’attenzione due opere che potremmo dire misteriose. Si tratta di due tele (130 x 180), dalla paternità ancora non identificata e pare databili intorno al terzo decennio del XVII secolo: “Erodiade che presenta la testa del Battista” ed “Ester e Mardocheo”. Si è supposto che per ricostruire le vicende di tali opere bisogna guardare al Reggente Giovanni Enriquez, che aveva sposato Donna Maria Paladini (al suo secondo matrimonio), grazie al quale la baronia di Campi sarà elevata a marchesato, e inoltre la Collegiata andrà ad arricchirsi. L’ipotesi di fatto vorrebbe che i due dipinti siano appartenuti appunto agli Enriquez e si è considerata l’atipicità delle loro dimensioni, anomale per arredare un altare, e gli argomenti trattati. La prima opera narra un ben noto episodio di Giovanni, in cui Erode Antipa – poiché Salomé danzò per lui – le concesse, su istigazione della madre, l testa del Battista, il quale aveva pubblicamente condannato l’unione incestuosa e adulterina del re con la nipote Erodiade. La seconda opera ritrae Ester in trono, che consegna al cugino Mardocheo, il decreto del marito, il re Assuero, che aboliva l’ordine di uccisione degli Ebrei in Persia. Argomenti che potrebbero apparire come tanti, se il primo non rinviasse al nome Giovanni del marchese Enriquez e il secondo non fosse più volte proposto in pittura sui cassoni nuziali; inoltre, Giovanni Enriquez e Maria Paladini si sposano in un giorno che coincide pressappoco con la festa del Purim istituita da Ester e Mardocheo a ricordo della salvezza degli Ebrei minacciati dallo sterminio persiano: ad oggi comunque si tratta di supposizioni, non suffragate da documenti. Dalla sacrestia fino alle spalle dell’altare maggiore, è possibile procedere in un breve e suggestivo percorso museale di arte sacra, di recente allestimento, lungo il quale sono esposti arredi liturgici, paramenti sacri e vari oggetti legati al culto e facenti parte del corredo più prezioso della Collegiata e frutto di ritrovamenti effettuati durante lavori di scavo e restauro della Chiesa Matrice. La presenza degli stemmi gentilizi su alcuni manufatti favoriscono l’individuazione della committenza: per esempio, un calice figurato donato dalla famiglia Paladini-Enriquez come risulta dallo stemma araldico inciso al di sotto della base; dell’arredo liturgico fatto realizzare dagli Enriquez di Castiglia fanno parte anche tessuti e, in particolare, due pianete che riportano lo stemma ricamato sul dorso e testimoniano l’appartenenza al cardinale Enrico Enriquez, figlio di Don Giovanni Enriquez II e Donna Cecilia Minutolo Capece, ambedue i paramenti sono ricamati in oro zecchino su tessuto ottomano, l’uno però in rosso e l’altro in bianco, per ovvie esigenze liturgiche. Troviamo anche un messale decorato elegantemente da brocchie angolari in argento e suggellato dallo stemma della famiglia Cristaldo Magi, altro esempio di donazione. Esposte ci sono anche diverse cartaglorie e un antifonario del XVIII secolo, insieme a calici, ostensori e incensieri.
Tra gli oggetti in esposizione è impossibile non notare due ceste colme di centinaia di frammenti di Cristi crocifissi in terracotta. È un enigma che ancora non trova risposta, da quando nell’aprile del 1980, il prof. Alfredo Calabrese, nel corso di lavori di ricerca in atto nella Chiesa Matrice, li ha rinvenuti per una pura casualità sotto il pavimento dell’altare maggiore. Una collezione senza dubbio singolare, tutti di varia dimensione e stile, e tanto numerosi da comporre circa duecento figure integrali di Cristo. Forse furono raccolti tra le ceneri e le rovine di un incendio che avrebbe potuto distruggere la “chiesa gotica” all’interno della quale potevano essere conservati, o forse furono distrutti volontariamente ai piedi dell’altare del venerato Crocifisso per ottenere una grazia, riportando in vita – in maniera bizzarra – l’uso dei culti pagani che prevedevano il rito della distruzione e il seppellimento -nei pressi del tempio – dei frammenti degli ex voto, quali sono appunto questi cristi. Comunque è da evidenziare anche la mancanza di analoghi rinvenimenti, nel territorio salentino o altrove, e ciò rende di sicuro ancora più oscura l’interpretazione di questo ritrovamento.
Ci spostiamo fuori la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Come scrivevo all’inizio, proprio di fronte alla Collegiata si trova la cappella di S.Oronzo, costruita nella seconda metà del XVII secolo, quando Mons. Luigi Pappacoda non si accontentò di una tela dedicata al santo, commissionata dal vescovo stesso al pittore Carlo Rosa di Bitonto, fatta collocare in principio nell’altare in Coena Domini della Collegiata, bensì si era accesa nel monsignore la ferma intenzione di far costruire un’intera cappella nella Chiesa Matrice. Sant’Oronzo era stato autore di un miracolo di intercessione, ritenuto di fatto colui che aveva dato protezione a Lecce e a tutto il Salento dalla terribile epidemia di peste che aveva investito il Regno di Napoli nel 1656, e facendolo pertanto elevare, nel 1658, al patronato di Lecce e della provincia. Grazie alle offerte dei fedeli, nel 1662 si iniziarono i lavori di costruzione, che si protrassero fino al 1670, però i lavori di edificazione della cappella non furono eseguiti nella Collegiata, in quanto si ritenne che avrebbe pregiudicato l’intera fabbrica della chiesa, e pertanto fu realizzata esteriormente. Ed è lì che la troviamo, di fronte al portale maggiore della Matrice, lungo lo stesso asse dell’altare maggiore e sullo stesso piano di calpestio, quasi ne fosse un ideale prolungamento, una sua appendice, stabilendo architettonicamente una continuità religiosa tra le due costruzioni sacre. Ed è sull’altare principale dedicato al Santo titolare – rifatto nel 1737 su probabile disegno di Giuseppe Cino – che fu collocata la tela di Carlo Rosa.
In essa S.Oronzo è rappresentato con la mano sinistra abbassata sui centri abitati di Lecce (riconoscibile dalle porte d’accesso) e Campi (nel quale si nota il campanile settecentesco della Chiesa Matrice), in segno di protezione, e la destra benedicente. Si parla di un prodigio legato a questa tela, in quanto si narra che la mano del Santo si sia abbassata rispetto alla rappresentazione dei luoghi succitati: all’epoca fu perfino istituito un processo in merito, ma una moderna analisi scientifica – tramite radiografie del dipinto – nulla ha rilevato, non riuscendo ad attestare sottostrati pittorici con una posizione della mano a un livello differente.
L’altare del Santo, esempio di barocco leccese, realizzato per intero in pietra locale con decorazione policroma, presenta ai lati della tela quattro colonne – due tortili e due sezione circolare – con sfarzosi decori scolpiti e trattati in oro zecchino. Nella cimasa, una tela ovale rappresenta “La Conversione di S.Oronzo”. All’esterno dell’altare vi sono inoltre le statue di S.Fortunato e S.Giusto. A destra dell’altare principale è collocato il simulacro in cartapesta di S.Oronzo, che in precedenza era stata conservato nel Cappellone del SS.Sacramento nella Collegiata, a sostituire il settecentesco busto d’argento di scuola napoletana rubato nel 1976 e oggi, che ha ritrovato la sua collocazione in una copia, su modello originale, eseguita da Albino Sirsi e inaugurata durante la festa patronale nel 2003. Attribuiti a Carlo Rosa sono anche i dipinti degli altari minori, mentre sulle porte delle due sagrestie, dove fanno bella mostra le statue di S.Monica e S.Irene, vi sono le tele del 1799, firmate dal pittore campiota Pasquale Grassi, che raffigurano La Predicazione e Il Martirio di S.Oronzo. Inoltre, nella sagrestia di sinistra si conservano tutti gli strumenti necessari all’organizzazione della festa del Santo, che a Campi – in differita rispetto alla data ufficiale del 26 agosto – ricorre il 31 agosto e l’1 settembre.