Prima visione. Dogman
Il film diretto da Luc Besson Interpreti: Caleb Landry Jones, Jojo T. Gibbs, Christopher Denham, Grace Palma, Clemens Schick, John Charles Aguilar, Iris Bry, Marisa Berenson, Lincoln Powell, Alexander Settineri. Distribuzione: Lucky Red; Francia 2023, durata 114′
Massimiliano Manieri
Lo ammetto, sono entrato in sala con aspettative alte, un poco per il titolo che mi rimandava all’opera magnifica di Garrone, un poco perché quando vedo un film di Besson (alla regia, non solo alla produzione…) mi aspetto sempre un impatto scenico all’altezza dei miei malcelati vizi.
La pellicola è tratta da un fatto di cronaca realmente accaduto: un bambino, nelle mani di genitori evidentemente poco “sensibili”, venne rinchiuso per lungo tempo con dei cani, per punizione.
Una di quelle punizioni in grado di deviarti il corso della vita, probabilmente.
Ed è questo ciò che deve essersi chiesto il regista, facendone una trasposizione cinematografica.
Fin dove può indirizzarci umanamente un dolore così acuto?
Probabilmente mai così intensamente, come di questi tempi, le derive dell’animo umano son state affrontate così analiticamente, ed un’altra opera magistrale sul tema fu il Joker interpretato da J. Phoenix, oppure il compianto Heat Ledger (sempre nel ruolo del Joker).
Par evidente che Besson abbia voluto dare una reinterpretazione personale della sua visione del dolore.
Occorre innanzitutto lodare la scelta del protagonista, un magistrale Caleb Landry Jones che tiene altissima l’asticella della qualità recitativa, e su cui regge completamente questo atto scenico.
Il buon Luc ci fa dunque salire sulla sua giostra toccante, ci chiede un giusto biglietto, non tanto in denaro, quanto in lacrime e scossoni, e ci fa entrare in svariate stanze del cuore, graffiando le pareti, urtando la mobilia, rompendo le lampadine, e creando nuove ombre.
Il volto del protagonista è una perenne maschera scossa di intensità, praticamente impossibile levargli gli occhi di dosso; si entra in fortissima empatia con quello sguardo lacerato di vita, talmente tanto che ancor ora, mentre scrivo questo articolo, non so se me lo son tolto dalla mente.
La storia ha un incipit toccante di per sé, un bambino, cani come unici amici, una vita che definire difficile sarebbe eufemistico, e quella frase di Alphonse de Lamartine sui titoli di testa, a farci da emblematica avvisaglia:
“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”.
Invero, il protagonista ci mette dentro tutta la sua “scozzesità” per scassinarci il cuore, ma siamo noi a cederglielo senza lesinare? oppure lui conosce la nostra più intima combinazione?
Besson ricama le vicissitudini di questo bambino (poi divenuto adulto) cui sembrava che la vita avesse messo da parte soltanto traumi, e ne fa una sorta di vendicator/poetico/tragico, che attraversa il vivere reinventandosi su più palcoscenici, nonostante gli handicap che la stessa vita gli ha riservato, impossibilità (o quasi) di camminare in primis.
E lui, catturato dalla polizia, in una delle sue scorribande vendicative, tesse dinanzi lo schermo le sue gesta, ad una psicologa, messagli accanto per evidenti difficoltà delle forze dell’ordine ad inquadrare anche umanamente il profilo di quest’uomo.
E sarebbe stato facile probabilmente farci piacere Douglas già soltanto in vesti malandate ed invase da piagnoneria, ma Besson non si fa attrarre da questo comodo magnete attizza/lacrime, forse perché cerca qualcos’altro in termini espressivi ed essendo lui un regista che ha sempre amato gli esperimenti nei ruoli (indimenticabile il cattivo di Leon, cesellato da un magnifico Oldman), ricama nella figura del protagonista, un qualcuno che sfacciatamente muta, si traveste, e maschera dietro sbuffi di trucco, svariate personalità, atte a difenderlo, dalle cattiverie della vita, dai nuovi nemici, da essere che da comprimario diviene primo attore, dello spettacolo in cui recita, dalla famiglia fortemente ed antropologicamente cattolica da cui proviene, questo coacervo acidulo, cuoce in lui a dismisura, generando un quid di “luminosa oscurità” (mi si permetta l’ossimoro) e trova il suo ultimo riflesso nel finale, (avviso SPOILER) dove lui rivela la sua interpretazione cattolica di una possibile espiazione sotto l’ombra di una croce.
Ma è qui che Besson ci riserva il proiettile che non ti aspetti, perché in ogni vendicatore che si rispetti, e nel quale lo spettatore si possa identificare, un regista ci metterebbe un uomo nel pieno delle forze, che con ogni singolo pugno stenda il maligno di turno, Douglas questo non può farlo, sta in piedi a malapena, il tempo di cantare con trasporto in vesti da drag/queen, un brano di Edith Piaf soltanto, per poi crollare dietro il palcoscenico.
Douglas ha soltanto l’amore per i suoi cani in questo mondo, null’altro.
Risulta chiaro anche ad un ebete, che da spettatore, a quel punto hai cuore, fegato, ed occhi recisi, e puoi soltanto arrenderti a quel dolore, nessuna resistenza è umanamente immaginabile.
Un’unica pecca è che nella tecnica Bessoniana sono da sempre previsti molti mezzucci narrativi, talvolta anche forzati, per giungere ai risultati prefissati, ed anche in questo film, in alcuni passaggi, lo scenario caricato, rischia il caricaturale, per alcune sfumature, ma credo lo si possa perdonare, vista la ricetta gourmet servitaci.
Si esce sazi dalla sala, colmi di un fondo toccato, di voli su umanità borderline, sulla cattiveria degli uomini, su un senso malinconico diffuso su quanto anche noi possiamo aver lasciato che accadesse, sotto i nostri occhi, senza che noi intervenissimo, errando, senza meta alcuna.
È dark il DOGMAN di Besson, è punk (poiché sporco di vita fino all’osso).
La sagoma di lui (lei) sfrontato, in carrozzella, truccatissimo, nei suoi sguardi perduti, disillusi, eppure ancora sognanti, può lacerarti l’anima, e non mi sorprende affatto si sia pappato la mia in un sol boccone…
Bravo, bene, bis!