“Il club della solitudine” di Deborah Bincoletto
La vita di ognuno è un pozzo, una bocca spalancata sugli anni. Puoi urlare, oscurare il pianto sino ad addormentarti sfinito, dentro puoi buttarci tutto quello che vuoi dimenticare. Spesso però tutto torna a galla. Basta un ricordo per far risalire il tormento e con esso arrivano anche le lacrime. Quando proteggiamo le parole con il silenzio, si piange.
Uno scoramento quasi necessario per liberarsi del trambusto che fa crollare le difese emotive. In quei momenti lì sei solo, tu e il maremoto. Sei foglia e tempesta. Sei solitudine. Ti chiudi in te stesso per trovare rifugio, ma resti incastrato. Pensi e ripensi a molte cose, le stesse che diventano montagne. Senti il peso dei percorsi fatti, di quelli a cui hai dovuto rinunciare, alle ferite che si aprono con un nonnulla. Pensi anche che parlare con qualcuno sia una perdita di tempo, superfluo. È difficile mettersi nei panni di qualcuno e fargli vedere le cose nella giusta prospettiva quando vede tutto buio. Allora, subentra la tristezza. Serve la tristezza per conoscere le vie dei colori. Se sei finito in fondo al pozzo ti devi parlare, ti devi ritrovare. Passerai in rassegna la tua vita per lasciare lì, nel fondo, quello che non ti piace e che ti fa star male. Tu, alleggerito, risali.
In Il Club della solitudine di Deborah Bincoletto sei silenzio e voce. Solitudine e condivisione di idee, di pensieri. Sei anche tutte le parole taciute dalla protagonista, Vera, che si è isolata per poi ritrovare se stessa tra gli altri. Con gli altri, un gruppo di amici conosciuti grazie ad una strana curiosità, ha scoperto le varie facce della solitudine che quando si aggrappa alle viscere ti fa perdere la luminosità negli occhi e le parole più belle. L’aggregazione ha rotto gli schemi che la solitudine aveva tracciato innalzando barriere. Pulita la prosa. L’autrice nella narrazione non si perde in giri superflui, dosa le parole per questo i concetti non sono mai ripetitivi. Empatica la storia e fluida la scrittura.