Pochi…ma buoni?

Saremo sempre meno e più anziani. Le ricadute saranno molte e talvolta imprevedibili

Stefano Quarta

Mentre in Italia si discute da anni della necessità di politiche che stimolino una natalità che oramai è sostenuta solo dagli immigrati, la Cina ha appena concesso la “libertà” del terzo figlio. Come ben noto, la Cina attuò una politica di contenimento della crescita demografica. La preoccupazione per un’eccessiva diluizione delle risorse spinse il governo a imporre (dopo alcuni tentativi più morbidi) la politica del figlio unico. Oggi, a distanza di molti anni, i frutti di quella politica iniziano a far presagire quei risvolti negativi che una popolazione più anziana comporta.


L’Economia ha tradizionalmente mostrato un atteggiamento utilitaristico nei confronti della demografia, trattando i figli alla stregua di un qualsiasi bene durevole. Ciò non deve sorprendere. Occorre sempre tenere a mente che in Economia non esiste morale.
Il primo approccio al tema della relazione tra popolazione ed economia lo si deve a Thomas Robert Malthus, economista e pastore anglicano che, nel 1798, pubblicò un saggio in cui affrontava il legame tra popolazione e risorse disponibili. Egli sosteneva che la prima tende a crescere secondo una progressione geometrica (quindi esplosiva, analoga all’andamento dei casi in un’epidemia, del tipo: 2-4-8…), mentre le risorse crescono secondo una progressione aritmetica (quindi lineare, del tipo: 2-3-4…). Malthus teorizzava ciò agli albori della prima rivoluzione industriale, quando ancora non era evidente che anche le risorse possono crescere in modo esplosivo. Tuttavia, il principio di fondo rimase e rimane valido, tanto che ancora oggi i governi di tutto il mondo si confrontano sul tema della sovrappopolazione. È evidente che la Terra (così come ogni singolo Stato) non ha risorse infinite e che quindi una popolazione mondiale in continua crescita raggiungerebbe, prima o poi, un livello critico oltre il quale le risorse non sarebbero sufficienti per tutti. Nel 1950 la popolazione mondiale era di circa 2,5 miliardi, oggi si attesta sui 7,8 miliardi e si stima che intorno al 2050 si raggiungeranno i 10 miliardi di individui. In pratica 7,5 miliardi in più di individui in un secolo. Certamente non pochi.
Come sempre, però, la media (o la somma) descrive solo una parte del problema. Se da un lato ci aspettiamo che le popolazioni di Africa e America Latina guidino questo aumento, dall’altro assisteremo ad una contrazione della popolazione dei paesi sviluppati tra cui, ovviamente, l’Italia.
Ogni paese, in genere, sperimenta 4 situazioni demografiche che seguono altrettante fasi dello sviluppo economico. All’inizio vi è un elevato tasso di mortalità, compensato da un altrettanto elevato tasso di natalità e la popolazione si mantiene stabile su livelli bassi. È questo il caso dei paesi del Terzo Mondo. Nei Paesi in via di Sviluppo, invece, la popolazione aumenta, a causa di una mortalità in calo (grazie ad un miglior sistema sanitario). In seguito, il maggiore benessere fa progressivamente diminuire il tasso di natalità fin sotto il tasso di mortalità, e così, dopo aver raggiunto la popolazione massima, questa inizia a ridursi. Infine, politiche di incentivo alla natalità possono far si che i due tassi si allineino, implicando una sostanziale stabilità di lungo periodo. I paesi avanzati possono trovarsi nella terza o nella quarta fase. In Europa, la Francia rappresenta un esempio da imitare. Anche escludendo gli immigrati, infatti, mostra uno dei tassi di fecondità più alti del continente, se non il più alto. Ma allora, perché dovremmo imitare la Francia? Perché una popolazione in decrescita è un problema quando invece, a livello globale, ci preoccupiamo del problema opposto? Perché, come detto in apertura, la decrescita demografica porta con sé tutta una serie di implicazioni per le quali bisogna farsi trovare pronti.
In Economia, il citato approccio utilitaristico considera i figli come un’assicurazione per la vecchiaia. Il genitore si occupa del figlio per far si che questo, un giorno, ricambi il favore. Non bisogna, tuttavia, vedere questo patto come un accordo tra singoli individui, quanto piuttosto come un patto tra generazioni. È ben noto che i contributi degli attuali lavoratori servano per pagare le pensioni di chi ha lavorato in passato, esattamente come un figlio riconoscente che accudisce l’anziano padre. Affinché il sistema regga, deve però (evidentemente) esserci un equilibrio tra le due categorie. Ma se i giovani sono pochi, i contributi accumulati non bastano e le pensioni devono essere ridotte. Ed infatti, dalla riforma Dini del 1995 si è iniziato un processo di contenimento della spesa pensionistica che ha evitato il fallimento dell’Inps (alias dello Stato). Ed anche la tanto contestata riforma Fornero si pone come ultimo atto di questo processo. Il suo superamento potrà essere solo momentaneo, a meno di compensare con la perdita di altri servizi. Già 26 anni fa, infatti, i dati indicavano che nel futuro ci sarebbe stato uno squilibrio generazionale ed oggi siamo sull’orlo della recessione demografica. In Figura 1 possiamo vedere la piramide dell’età (grafico che rappresenta la numerosità delle varie fasce d’età, distinte per sesso) del nostro Paese nel 2020.

grafici  piramide dell'età
Figura 1: Piramide dell’età – Italia 2020.


Quel che balza subito agli occhi è che, pur chiamandosi piramide dell’età, non sembra affatto una piramide. In figura 2 vediamo invece l’analogo grafico del Camerun.

Figura 2: Piramide dell’età – Camerun 2020.


Questa è una piramide! In un Paese povero, come abbiamo detto, il tasso di mortalità è molto alto, perciò raggiungere i vertici della piramide (cioè invecchiare) è via via più difficile. Nel nostro Paese, invece, il problema non è invecchiare, bensì nascere. In Figura 3 e 4 possiamo vedere l’evoluzione del grafico dal 1950 alla stima per il 2100 (passando ovviamente per la situazione attuale in Figura 1).

Figura 3: Piramide dell’età – Italia 1950.


Figura 4: Piramide dell’età – Italia 2100.

Nel 1950 il nostro grafico sembrava ancora una piramide, sebbene molto slanciata, mentre nel 2100 sarà più simile ad una piramide capovolta. Questo perché, senza interventi di incentivazione delle nascite, una volta che la base si assottiglia, ogni nuova generazione che arriva a procreare è meno numerosa della precedente e, quindi, per invertire la rotta sarà costretta a fare un numero di figli ancor più alto.
Siamo all’inizio della decrescita demografica perché, come si può notare in Figura 1, le classi di età più numerose comprendono individui tra i 45 e i 55 anni, che da un lato è difficile facciano figli, mentre dall’altro non sono così lontani dalla pensione. Politiche come l’assegno unico (che entrerà parzialmente in vigore a Luglio) vanno nella direzione giusta, aiutando un po’ di più le famiglie con figli minorenni ma, giungendo tardivamente, possono risultare ormai poco efficaci.
La Cina si trova in una situazione analoga a quella dell’Italia degli anni ’90, quando capimmo di dover intervenire. Il paradosso è che la Cina si trova in una condizione artificiale da essa stessa voluta.
Quindi, come sempre, la virtù sta nel mezzo. Il modello da imitare è probabilmente quello francese o scandinavo, dove ogni coppia mette al mondo circa 2 bambini, consentendo la sostanziale stabilità della popolazione. Si stima che nel 2100 la popolazione francese sarà praticamente pari a quella di quest’anno, mentre quella italiana passerà dagli attuali 60 milioni a 40 milioni nel 2100 (altre stime ritengono si possa arrivare addirittura a 30 milioni). Le ricadute non si limiteranno al sistema pensionistico, ma anche a quello sanitario. Un numero sempre più esiguo di lavoratori dovrà sostenere, con le proprie tasse, gli acciacchi dell’età di un numero sempre maggiore di anziani. Ma le conseguenze di un calo demografico possono colpire gli ambiti più vari, come per esempio il mercato immobiliare. Se un paese si spopola, la domanda di immobili inesorabilmente cala e di conseguenza il valore del patrimonio complessivo italiano, spesso posto a garanzia di prestiti e mutui. A sua volta questo potrebbe intorpidire il mercato finanziario e successivamente quello economico. Oppure si pensi a ciò che accade nelle scuole da diversi anni, dove una cronica mancanza di iscrizioni spinge i dirigenti scolastici a sollecitare politiche di votazione sempre più generose, intimoriti dalla possibilità che le iscrizioni calino ulteriormente a causa di un fama di “scuola tosta”. Ma con meno bambini la soluzione non più essere questa, quanto piuttosto la chiusura o l’accorpamento di alcune scuole, ripristinando, anche qui l’equilibrio. E col tempo scopriremo tutte le altre conseguenze negative che ora non riusciamo neanche ad immaginare. Servirà trovare le soluzioni in anticipo, evitando di farsi travolgere come sempre, oppure invertire la tendenza. Vedremo.