Sulle tracce di Giuseppe Manzo
Una nuova tappa dei dialoghi itineranti a Torrepaduli (Ruffano, Lecce) il prossimo 16 luglio 2025 dove è conservata un’opera straordinaria dello scultore leccese dedicata a colei che scoprì la croce di Gesù.
Il ritrovamento della vera Croce è il tema del gruppo scultoreo realizzato da Giuseppe Manzo (1849-1942) conservato nella Confraternita di Torrepaduli che sarà al centro il 16 luglio 2025 a partire dalle ore 20 di una nuova tappa dei dialoghi “Sulle tracce di Giuseppe Manzo” volti a scoprire l’arte sublime dell’artista della cartapesta che ha reso Lecce famosa in tutto il mondo. Nella giornata dedicata alla Madonna del Carmine, alla fine della celebrazione liturgica, si terrà un nuovo appuntamento che coniuga arte, fede e territorio nella chiesa di Torrepaduli, frazione del comune di Ruffano, che conserva un’opera straordinaria di Giuseppe Manzo dedicata a colei che scoprì la croce di Gesù.
Si tratta del gruppo scultoreo policromo che lo scultore leccese realizzò nel 1920 e dedicato a Santa Elena in estasi mentre abbraccia la croce, accanto a lei figurano il vescovo di Gerusalemme Macario e un guarito; l’opera cristallizza, in una composizione delicata e struggente, il miracolo della vera Croce quando Elena, prima archeologa cristiana, nel 336 riuscì a portare alla luce la Croce di Gesù nel 336 grazie alla sua devozione e al suo operato caritatevole.
Un dialogo intorno alla scultura, all’arte di Giuseppe Manzo ri-scoperto attraverso la voce di protagonisti dell’arte della cartapesta oggi come il cartapestaio Antonio Papa, la restauratrice e artista Pamela Maglie, la voce della fede che si rinnova grazie all’operato delle Confraternite: Maria Rosaria Colona priora della Confraternita della Madonna delle Grazie di Torrepaduli e don Gino Morciano padre Spirituale della confraternita, il dott. Gabriele Cacciatore. Introduce Antonio Manzo guida turistica e operatore culturale nonché pronipote dell’artista, modera la giornalista Antonietta Fulvio.
Nato a Lecce nel 1849, Giuseppe Manzo fu soprannominato il Michelangelo della cartapesta, per il verismo e la perfezione delle sue sculture, pale per altari e altorilievi. Solo per restare in Puglia si annoverano un bellissimo altorilievo nel Duomo di Lecce, la Madonna del Rosario di Pompei nel Santuario di Santa Maria del Canneto a Gallipoli, l’Annunciazione nel santuario S. Maria de finibus terra, il San Giuseppe Patriarca nella Chiesa di San Nicola a Corigliano d’Otranto, il Sacro Cuore di Gesù e un altorilievo della Vergine con il Bambino nella Cappella del Santissimo a Cavallino, la statua della Madonna del Carmine nella Chiesa di San Vito a Surbo, il San Giuseppe nel Santuario S. Maria della Lizza ad Alezio, la Madonna dei Fiori nella Chiesa della Santissima Trinità Manduria, nella Chiesa della Beata Vergine a Casarano, a Melissano, Matino, Parabita, Tuglie, Putignano san Pietro Vernotico, Ostuni, Fasano, San Vito dei Normanni, Francavilla Fontana…
Una figura di spicco riconosciuta all’estero per talento e tecnica e per una vastissima produzione di Santi, Cristi e Madonne entrate a far parte di collezioni pubbliche e private in tante parti del mondo.
Il suo laboratorio ricevette dal Re Umberto I il fregio dell’insegna regia come ricorda la targa apposta qualche anno fa in via Paladini, e durante la sua vita furono davvero tanti i riconoscimenti ricevuti per le sue meravigliose creazioni in cartapesta. Il papa Pio X gli conferì la Croce di Cavaliere dell’Ordine Piano e l’Accademia di Parigi lo nominò socio benemerito e gli attribuì la Medaglia d’Oro. Nel 1899 fu premiato con la medaglia d’oro all’Esposizione Campionaria di Roma e all’Esposizione Industriale e Commerciale di Poitiers e l’anno seguente alle esposizioni internazionali di Londra, Parigi e Bruxelles: questo a testimonianza, se mai ce ne fosse stato bisogno, della sua Arte universalmente riconosciuta dalle più prestigiose istituzioni dell’epoca. Lo attestano d’altronde anche i numerosi diplomi e corsi di merito attribuiti all’artista che mai adoperò per la sua opera in cartapesta i giornali perché come asseriva “i santi non si vestono di notizie”. Le sue statue si distinguono per la purezza del modellato, le armonie delle linee di figure dai lineamenti mai esagerati ma che esprimono con semplicità l’essenza della religiosità. Si racconta che quando doveva delineare i volti dei suoi “santi” Giuseppe Manzo si appartasse entrando quasi in estasi e questo non perché fosse geloso della sua arte ma semplicemente perché sentiva l’esigenza di entrare in contatto con lo spirito del simulacro da rappresentare. Nella sua bottega, che contò fino a quindici unità nel periodo più fiorente, non si lavorò mai in serie ma con le più pure tecniche come aveva appreso dai suoi maestri dapprima Luigi Guerra, Achille Castellucci e Anselmo de Simone poi Achille De Lucrezi, dove presso la sua bottega iniziò a lavorare insieme a Andrea De Pascalis con il quale nel 1888 aprì un laboratorio sotto il Palazzo Romano, in via Paladini. Cinque anni più tardi il De Pascalis si mise in proprio e Manzo continuò da solo la sua attività. Il resto è storia, trasmessa al figlio Antonio che però, pur non raggiungendo la qualità tecnica del padre, fu costretto per l’imperante crisi del settore a chiudere il laboratorio nel 1959. I tempi erano cambiati, la carenza di committenti da un lato e dall’altro la mancanza di una trasmissione generazionale di un’arte destinata ad impoverirsi anche per la contaminazione e l’impoverimento dettato dalla produzione seriale di manufatti un tempo autentiche e concrete prove d’autore.
Il ritrovamento della vera Croce
Quando nel 326 Costantino fece uccidere prima il figlio Crispo, su istigazione della matrigna Fausta, sua seconda moglie e poi anche quest’ultima sospettata di attentare al suo onore, Elena all’età di 78 anni mantenne salda la fede e si recò in pellegrinaggio penitenziale in Terra Santa. Qui, fece edificare le Basiliche della Natività a Betlemme, dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi e indusse Costantino a costruire quella della Resurrezione. Sul Golgota dove fece distruggere gli edifici pagani costruiti dai romani, avvenne il prodigioso rinvenimento della vera Croce. I tre chiodi che trafissero il corpo di Cristo furono donati da Elena a Costantino. Uno fu incastonato nella Corona Ferrea conservata nel duomo di Monza, quasi a voler ricordare che non esiste sovrano che non debba soggiacere al volere di Dio. Le preziose reliquie sono oggi conservate nella Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme. Elena muore nel 329, all’età di 80 anni in un luogo non identificato. È assistita dal figlio che fece trasportare il corpo a Roma sulla via Labicana dove fu tumulato in un mausoleo a lei intitolato. Il sarcofago di porfido, trasportato nel secolo XI al Laterano, è oggi conservato ai Musei Vaticani. Il suo culto si diffuse sia in Oriente che in Occidente dove è commemorata rispettivamente il 21 maggio e il 18 agosto e associata iconograficamente al simbolo della croce. La statura spirituale di Elena fu tale da essere scelta insieme ai santi Andrea, Veronica e Longino tra le statue monumentali ai piedi dei pilastri della cupola michelangiolesca nella Basilica Vaticana.
Di famiglia plebea e pagana, nacque a metà del III secolo probabilmente a Drepamin, in Bitinia nel golfo di Nicomedia (attuale Turchia), cittadina a cui in seguito il futuro figlio e imperatore Costantino darà il nome di Helenopolis. Qui, secondo Sant’Ambrogio, Elena esercitava l’ufficio di “stabularia”, cioè locandiera addetta alle stalle. La modestia e delicatezza di Elena innamorò il giovane ufficiale Costanzo Cloro, che, nonostante le fosse di grado sociale superiore, la volle in sposa e dalla loro unione nacque Costantino. La storia di Elena è segnata da grandi dolori: Costanzo, ottenuto il titolo di Cesare la ripudia e viene allontanata dall’amato figlio che crebbe alla corte di Diocleziano. Nel 305 Costanzo Cloro divenne capo dell’impero, il giovane figlio lo seguì in Britannia dove prese parte alla campagna di guerra contro i Pitti per poi succedergli alla morte su acclamazione dell’esercito. Tra i primi provvedimenti il neoimperatore richiamò subito la madre Elena Flavia Giulia conferendole il titolo di Augusta. La donna, la cui effige fu incisa nelle monete, ebbe da allora libero accesso al tesoro imperiale. Gli onori non ne inorgoglirono mai il cuore, anzi stimolarono in lei l’innata attenzione al prossimo che si concretizzò nell’elemosina, nel venire incontro alle necessità materiali dei poveri, nella liberazione dal carcere, dalle miniere e dall’esilio di numerose persone. Le opere di misericordia riflettevano la fede di Elena, luminosa e contagiosa al punto che in molti si chiedono quanto abbia influito sulla conversione del figlio e sulla promulgazione dell’editto di Milano del 313 che diede libertà di culto ai cristiani dopo tre secoli di persecuzione. Si racconta che prendesse parte alle celebrazioni religiose, vestendo abiti modesti per confondersi tra la folla e invitasse gli affamati a pranzo servendoli di persona.
red.