di cartone
Se la Storia ci cambia Cristo cala dal cielo di ogni cattedrale,
«É» sconfitto.
E, laggiù l’Africa violentemente vive, mentre in Europa, lentamente, si muore.
Articolo apparso su “Culture” di “IlPaeseNuovo” quotidiano del Salento 12/ott./2011
(Francesco Pasca)
Chi racconta, è risaputo, ha un rapporto molto personale ed intimo con le cose, con quanto si prefigge di portare a termine con un narrare; chi leggerà poi quel racconto resterà, sarà accompagnato dall’attesa di un significato da dare, percepirà con lo scorrere del tempo dapprima le pause poi sarà l’idea che via via prenderà forma e, come per chi racconta anche da parte sua l’approccio diverrà altrettanto personale. Nella brevità di una lettura da locandina cinematografica, di un qualsiasi titolo, così come per l’ultimo film di Ermanno Olmi, “Il villaggio di cartone”, così, quel testo troncato dal suo predicato ed il solo sottolineato dalla sua specificazione, sono stati la mia domanda. In quel normale avvicendarsi di un’idea scritta, condensata nella simultaneità, si è affacciata la domanda, tante le risposte che sono andate a convergere. Un’unica realtà individuabile è stata : “Precarietà”.
Mi è rimasto per un brevissimo istante il “Cosa” può esservi di precario.
Tutto nell’ovvietà è precario, tutto rasenta il confine dell’esistere in una trasformazione. Ma, di quel tutto, si è diversificato l’essere temporaneo o l’eternamente con-temporaneo, l’azione che si trascina e il come si conduce. La mia temporanea significazione l’ho voluta dapprima contrapporre alle sensazioni di tutti noi. Non mi hanno convinto ed ho dubitato. Ho metabolizzato ed h o scritto, sto scrivendo. Quando accade lo faccio da laico rispettoso, non tolgo le luci da nessun altare, non rendo deserto alcun luogo, non chiudo né sinagoghe, ne minareti, ne luoghi di culto in genere. Non desertifico nessuna idea, nessuna immagine. Se lo dovessi fare, naturalmente, ciò sarebbe con altra significazione, Ermanno Olmi mi direbbe, mi ha detto come. E, così è stato. È così che mi sono ritrovato, ieri sera, seduto da ascoltatore visivo. Sono entrato in un silenzio assoluto e già buio.
La sala di proiezione era nei primissimi secondi di ascolto, alle sue prime immagini di visione per me iniziata sghemba, al suo primo spettacolo. Per un brevissimo ritardo, non vi è stata nessuna presentazione, nessun titolo. Mi si è presentato, incombente, un faccione barbuto spremuto da due mani in segno di sgomento. L’ho individuato ed impresso con un ripetersi di parole, nella sua e mia paura di poter dimenticare, di non voler dimenticare. Ho veduto un volto chiuso a riccio e segnato in un ultimo rifugio rimastogli. Poi è avvenuta l’esecuzione di quanto altri avevano già disposto. Via le luci, via la disposizione ordinata di un culto da officiare, via le immagini, via il luogo dal luogo, via l’incertezza di una precarietà e la sua stessa sottolineatura, via il simbolo. È avvenuto in poco tutto il deserto possibile. Il desertificarsi dell’idea era scandita dal lento sovrapporsi di due realtà, quella millenaria del Cristo e quella di una piccola porzione di secolo di un’altra immagine, della chiesa dismessa impressa nel ricordo del suo sacerdote (da un intenso Michael Lonsdale), dalla presenza dell’ambiguo sacrestano (Rutger Hauer) ed infine dal rappresentante della legge (Alessandro Haber) Come per ogni luogo svuotato dalla sua anima-memoria, anche per quest’ultimo, si attenderanno nuove realtà precarie, pronte ad inseguire il tempo e la storia. Ermanno Olmi ci ha da sempre abituato e piacevolmente sorpreso. Scena dopo scena, ancora una volta, dopo “Centochiodi” ecco la nuova metafora. Questa volta sono le negatività politiche, questa volta sono queste che lo spingono. Sono le situazioni di un paese precario che lo convincono con ferrea determinazione ad imbracciare il suo fucile, la macchina da presa. Ermanno punta il suo obiettivo su quanto di precario c’è intorno a noi e, su di noi non tralascia niente, la mente è ben disposta. Intorno e dentro ad una cristianità sempre più disarmante costruisce la storia, e, si sente lontano un miglio che ha voglia di non sparare nel mucchio, sa puntare la sua cinepresa con un obiettivo dall’inquadratura stretta tecnicamente e con l’ampiezza di alta luminosità metaforica induce a sentire le immagini anche se rarefatte dai suoni, dai dialoghi scarnificati e silenziosi come il gruppo di cartapesta altamente evocativo della crocifissione con una Maddalena che stringe a sé l’impossibile. Il vuoto lentamente si riempie e diventa rifugio della nostra eterna clandestinità.
L’Africa è il silenzio nascosto, il villaggio non è più globale ed assume i connotati di cartone, di un riparo che tormenta l’idea precaria dell’esistere. Tutto si espande e si contrae. L’evento non è inaspettato e diventa occasione. Ad Ermanno regista ed al personaggio attore immedesimato nel vecchio sacerdote non importa la causa di un presente che reclama un ordine, loro vogliono il rispetto della precarietà. Il regista spara i suoi fotogrammi e questi si mescolano con le speranze di tutti, con le indegnità dell’uomo che non ha colore. Il disagio psicologico ma orgoglioso si alterna alla povertà vera di chi “non possiede” un Luogo, di chi ha lasciato un Luogo e dove ancora, in ogni esistere, altri, come già loro sono stati, ora ne approfittano (Giuda è sempre in agguato) e si vendono il loro ed altrui corpo e la loro stessa mente; il ciò che è precario non importa, non conta cosa andranno a fare una volta accontentati nel loro destino. I bimbi comunque cresceranno o moriranno, le madri partoriranno la nascita nera o di qualsiasi colore sotto la croce delle religioni, i padri andranno sempre alla ricerca dell’identità dei loro figli. (la sacra famiglia scapperà dall’Erode di turno e riposerà in una grotta di cartone). C’è anche chi ha deciso il sacrificio estremo, quello proprio e degli altri. C’è si immolerà per una causa altrettanto precaria come mina umana. Il fuoco dilanierà altro fuoco, altra speranza ed altra precarietà. Olmi insegna che il vuoto che si vuol creare, comunque, non distruggerà la memoria che è in noi, questa si auto alimenterà, è auspicabile, probabilmente, sarà la solidarietà più autentica per l’umanesimo universale, superando le barriere delle chiese piene o vuote che siano. Personalmente ho ricevuto l’attestato di una mia convinzione. Ho riconosciuto nel racconto le due figure complesse e la necessità di ritrovarle nell’uomo, in quel valore aggiunto che si identifica con il laico. Nel film, il vecchio sacerdote riesce a dialogare con tutti e lo fa non confessando ma confessandosi al medico del corpo, all’ateo. E, non vi è alcuna necessità di ritrovarsi in una qualsivoglia religiosità per credere che: “o noi cambiamo il corso della storia o sarà la storia a cambiare noi”.
La pellicola è passata dalla 68ma Mostra del Cinema di Venezia, è ora nelle nostre sale cinematografiche, non perdetevela. Pensate che ad un passo da noi c’è l’Africa, che vive come Luogo e muore come necessità.