The Artist
The Artist è
La voce del padrone
di Francesco Pasca
Si vuole che il bianco ed il nero siano uniti dal loro improbabile, siano il formato dell’immagine primordiale, poi, eccoli uniti nel muoversi, processati nella nostra fantasia come il susseguirsi di un movimento, poi ancora che s’affacciano nel nuovo realismo o nel reale reale, oppure in quello fatto di fumo, di alcol, di sesso, di espressioni marcate da volti e dalle loro pause, dalle ansie e paure. A volte si piange, e che lacrime. Si accappona la pelle, e che brivido, che paura. A volte solletica, e che rossori. In questo susseguirsi ci ritorna ancora e sempre fantastico come degno di un nuovo realismo o di un ancor più nuovo noir o ancora come un orgoglio quasi irrazionale.
Là, nel B/N, è che si coniuga l’emozione con la Storia. Nel 2011 con The Man Who Wasn’t There (L’uomo che non c’era), Usa, 2001 di Joel e Ethan Coen ci hanno raccontato e convinto che tutto questo discorso non è che il bluff del cinema, che tutto è da trovarsi nella poetica dei paradossi del reale. Per chi sa di colori, il bianco sa che è somma, e, con il nero, il non colore, questi estremi di luce s’accompagnano sino alla negazione degli eventi da loro generati o s’affacciano a nuove possibilità, s’amalgamano in strane e meravigliate forme, generando così uno strano colore-calore. Per definizione divengono lo scrivere di un’emozione prospetticamente infilata nell’imbuto della nostra Storia. In cinematografia, la fotografia si riprende così quel che, per il suo archetipo è l’anacronistico del ciò che è muto e parla del passato, si fa restituire la forza eletta dal Vero.
Nel mio ozio sono stato a prendere visione di The Artist. Ho assaporato la delicatezza del B/N.
Nel Cinema, ma anche altrove, spesso accade che il passato si mescoli col futuro. Nell’improbabilità di quello stato o di quel voler essere, due sono le “particelle” fisiche e psichiche da unire: voler dare corpo a ciò che non si può né volere né mescolare; forzare le leggi del Tempo e rendere presente la materia con quanto vi è ancora da determinare nella stessa. In The Artist è l’ottenere il BANG scritto prima del Rumore pensato e, del poi, dare l’effetto prima del BANG-Silenzio; Il Gesto ed il Segno rispettivamente costretti fra Colore e Materia. Tutto questo sino al momento in cui non accade il collasso, non si genera la rottura di ciò che insieme non si può unire e sino al momento del nostro pensare. In quel momento è necessario solo l’escogitaRE. Così avviene. Accade e si dà luogo al far maturare la nuova Commedia-Drammatico-Sentimentale per la regia del francese Michel Hazanavicius. Ugual cosa è per la sceneggiatura della durata di 100 Minuti nel Formato B/N. Accade nel visionare The Artist vincitore a Cannes 2011 per il miglior attore (Jean Dujardin) e ultimamente Premio Oscar 2012 per miglior film, regia, attore, costumi e colonna sonora. La voce è del padrone e del suo cane. Sono l’eccezione di un muto che fa diventare grande un cinema che potrebbe avviarsi a diventare piccolo. La Storia macina e sbuffa sulle sue rotaie, non aspetta nessuno. Tutti la spingono verso l’unica direzione e con la forza che ne fa il sopravvento e determina la stessa sua direzione. Giungono immancabilmente sempre gli scambi da manovrare, da far attraversare. Hollywood è nel 1927. Il Cinema ha direzioni segnate dalla depressione e dall’avvento del sonoro. Vi è sempre ad attendere un George Valentin (Jean Dujardin) che non può stare a guardare. Nel Cinema, in un Valentin, non vi possono essere riposte ma solo le incontrastate risorse tecnologiche di uno ieri o il successo alle aspirazioni di un uomo. Nasce così il contrasto tra vecchio e nuovo dove niente è tanto vecchio da essere vecchio ed altrettanta cosa lo è per il nuovo. Tutto deve attendere l’escogitaRE.
Tutto nasce dal muto, con un film muto all’interno di un altrettanto film muto. Tutto è proiezione, fagocitazione di sé, è pellicola che si auto avvolge e si auto replica in un altro sé. L’Uroboro così inizia, così è The Artist, è tutto nella dicotomia e nella fagocitazione tra un artista del cinema e il suo stesso cinema. Sono le vicende del bianco e del nero, della rivalità del rumore e del colore, di ciò che si oppone al buio con la luce e al silenzio con il rumore. L’antinomia del B/N è la vivace espressività dell’attore muto che ha paura di sentire persino la sua voce. Nell’incubo del divenire sente solo la voce degli altri, del suo cagnolino, delle cose che lo attorniano con i rumori. In questo bailamme è l’orgoglio di sapersi muto, di poter gestire le non parole con i gesti e con le espressioni facciali che, per essere gesto non potrà sentire ma solo controllare.
Nella vita si troverà sempre un Al Zimmer (in questo caso un produttore cinematografico, il bravo John Goodman) che inizierà a sbattere la porta in faccia senza riserve. È la nuova Origine e come tale si muove nell’archetipo di sempre. Occorre un’Eva (Peppy Miller in arte Bérénice Bejo), occorre una giovane e brillante ragazza conosciuta per caso. La dinamicità diventa la voce narrante di George Valentin. Mi pare di ascoltare in quel muto: «mio amore, non indugiare troppo su sentieri già percorsi. Siamo per dare importanza ai dettagli, siamo nati per lavorare con logica.
Abbandona l’abbandonabile, affidati al trovabile, all’intuizione, lasciati andare, non fare resistenza! È il momento di ascoltare il nuovo linguaggio nel sogno. Ricostruisci con me nuove false progressioni di tempo, nuove e false visioni dello spazio. Guardami! Ma soprattutto ascoltami. Ora afferra la coda, che è l’orgoglio, afferrala con la bocca sino a formare un cerchio con il tuo corpo. Rigenera l’antico simbolo dell’uroboro.»
È così che Michel Hazanavicius confeziona una pellicola raffinata, dà possibilità di ricondurre, di trovare i riferimenti coi quali ci siamo e ci costruiamo giornalmente: Quarto Potere di Orson Wells con la scena della colazione, il magazzino coi mobili di George; Il viale del tramonto di Wilder nella non rassegnazione; la coppia danzante di Fred Astaire e Eleanor Powell. Per me, fra i tanti riferimenti, non è sembrata scelta a caso quella dell’Artista che si accompagna con il fido cagnolino, con l’icona che ha segnato la generazione degli anni trenta, “La Voce del Padrone” –Ricordi-. Noi spettatori “Ascoltiamo” un cane (anch’esso rigorosamente pezzato dal B/N) che diventa splendido attore. La magia quando è tale risveglia, scuote, abbraccia come nella scena, bellissima, in cui l’Eva si abbraccia nella giacca di lui. Il muto infine ridà semplicità e nuove opportunità. L’opportunità è di trasformare in un attimo il BANG che si disegna muto sulla scena. Lì è, e, disegna l’equivoco. Aggiungo che sono bravi tutti gli interpreti e che è un’ottima regia.
Il B/N è storia a lieto fine accompagnata da buone musiche. Il B/N è l’intelligenza non comune e vuole che, il bianco ed il nero ridiventino il formato del realismo, la magia della loro stilizzazione e che rallenti per un attimo il cinema mondiale e porti alla riflessione, ad osservare le proprie conquiste non ultime quelle del 3D.