Le emozioni dei luoghi
Per la sezione dedicata al Luogo delle parole
“Per sempre”. Dalla raccolta ‘appunti di viaggio’.
di Enrico Coluccia
Bari, 15 /08/2012 Cari amici, il Trentino è una terra incantevole! Avevo il desiderio di tornarci dopo quasi trentacinque anni e l’ho trovata come la ricordavo, come se lei.. mi avesse aspettato. E come allora, ai miei vent’anni, ho avuto la sensazione che in quei luoghi la natura abbia perdonato l’uomo per il suo insediamento. Noi italiani siamo gente davvero strana! Amiamo le bellezze degli altri e snobbiamo le nostre. L’anno scorso ho avuto modo di visitare i decantati giardini di Gaudì alle porte di Barcellona; quest’anno ho passeggiato sulle rive del fiume che attraversa Merano. Mi sono inoltrato nei giardini dedicati alla memoria della principessa Sissi. Se non lo avete mai fatto, fatelo. Se volete visitare i giardini di Gaudì fate anche questo, per carità!, ma poi andate a Merano: è un trionfo di colori, odori, suoni, luccichii. Non vi è niente di costruito, niente di artificiale, compresa la bimba che si arrampica tenace sulle gambe della principessa di pietra all’ingresso e aspetta in posa la foto della madre mentre con gli occhi sembra dire: io sono la principessa vera. Ho camminato a lungo in quell’incanto con l’idea bislacca che qualunque cosa avessi desiderato lì avrebbe trovato l’energia per avverarsi, da sola. Mi sono seduto sulle panchine di legno nella via del belvedere; su ognuna sono intagliate a lama di coltello delle frasi. Non i soliti murales apocalittici che imbrattano i muri delle nostre città né quelle frasi piene di cuori infrecciati del tipo “ Antonio ama Laura per sempre”. No! Erano frasi di poeti celebri che scritte apposta lì, in mezzo a tanta bellezza, colmavano l’animo molto più in fretta che dal fondo di una pagina di libro sfogliato distrattamente in libreria in attesa che il caldo di questa città assurda si stemperi nella sera. Ho letto una frase di Alda Merini e ne sono rimasto incantato:
Quando si ha in noi il ricordo del passato e l’ansia del futuro, Cristo, la morte beve da noi l’eterno!
Non poteva che essere una donna; dette dalle donne le verità luccicano come diamanti. Attenzione però, queste parole vanno intese nel loro senso più profondo. A restare in superficie si rischia di cadere in interpretazioni banali; qualcosa del tipo.. bisogna vivere il presente, il qui e ora, lasciare il passato alle spalle.. il futuro ancora non c’è, vivi l’oggi, e simili amenità. Ve li ricordate no? quei pendoli a obelisco di moda negli anni ’60 con l’ammonizione sul quadrante, ‘Tempus fugit’, ovvero “Il tempo fugge” e quindi, sottinteso, cogli l’attimo fuggente. I nostri genitori lo citavano come simbolo della caducità delle cose, come se lo scorrere del tempo rendesse il nostro passato qualcosa di indegno e morto. Come se il passato non fosse tutto ciò che siamo e come se il futuro non avesse già di per sé l’insana abitudine di presentarsi ogni giorno pieno di dubbi e paure! Come può un essere umano liberarsi del passato? Semplice: non può, e non deve! Il passato è memoria; solo la memoria dà senso, dà forza, dà coraggio per affrontare le vicende del quotidiano. Non bisogna confondere il ricordo con la memoria. Non sono la stessa cosa. La memoria è un passato purificato, un passato che ci ha già reso migliori, consapevoli della propria interiorità, delle proprie radici, della propria reattività al mondo e ogni giorno che passa la arricchisce facendone un tesoro di esperienza.
Interiorità è memoria (..) è rivisitazione e riappropriazione orgogliosa del tempo trascorso, nondimeno di quello sprecato, sbagliato, sofferto. (1)
Ed invece il ricordo è rimuginare, subire il passato per non subire il presente come fa Francesca, nel V canto dell’Inferno, quando racconta a Dante gli attimi più importanti della sua vita.
.. Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria..
E’ facile rimuginare; è un po’ come sbattere la porta in faccia al mondo e rinchiudersi in uno spazio atemporale, dove tutto è già accaduto e dove puoi solo raccontare. E raccontando esperisci emozioni negative: magari rimpianto, o rabbia, oppure orgoglio, presunzione. Eccola la prima porta attraverso la quale la morte beve la nostra eternità.
La seconda è l’ansia del futuro. Poiché la vita è un continuo moto, un continuo cambiare, un’alternanza di stagioni e di incontri; un rinnovarsi di desideri e passioni, un’insalata di dolori e piaceri, di disillusioni e nuove speranze ecco che vaghiamo in cerca di certezze e non trovandole (perché non sappiamo guardare in noi stessi, e alcuni neanche sospettano che ci sia qualcosa da guardare in noi stessi) nel migliore dei casi ci mettiamo di fronte al futuro con la carrucola piena di cemento e costruiamo qualche diga ideale contro questo flusso caotico. Un esempio? Che ne dite di invenzioni come: ‘le forme cambiano ma la sostanza resta’. Se fosse vero basterebbe conoscere la sostanza di quel che ci accade (un paio di decadi, magari tre) e tutto sarebbe sempre sotto controllo, come una routine qualunque! Purtroppo la sostanza non esiste senza forma. E’ come se un naufrago fosse trascinato da un fiume in piena e dicesse: in fondo questa è solo acqua. L’avete mai saggiata la forza dell’acqua? Non ha forma e al contempo ha tutte le forme possibili e dentro sé è piena di vortici, correnti, rigurgiti; l’acqua rimbalza, precipita, ingoia. Nessuna diga improvvisata potrebbe reggerne l’urto.
E quando sentono l’ansia del futuro crescere alcuni la ingannano con un espediente ingegnoso. Poiché di dighe (leggi convinzioni) ne hanno viste crollare parecchie e si sentono ormai degli esperti in materia, tirano fuori il coniglio dal cilindro e si mettono a cavalcare l’onda. Una specie di equilibrio perenne, sempre alla superficie delle cose. Mentre le cose, ovvero le vicende delle loro esistenze scorrono, loro se ne restano in disparte a osservare. E se neanche questo basta, se nonostante ciò l’ansia torna a fare capolino, l’importante diviene..
.. occupare la mente con esigenze pratiche, utili a qualcun altro e a se stessi, affannate sino alla distruzione di ogni sintomo di autocoscienza disinteressata(…) perché il tempo soli con se stessi fa paura; angoscia e tortura la più parte di questa specie esteriore.(..) Non comprendono che questo tempo non va riempito, va fatto maturare attingendo a se stessi, alla propria memoria.(..)Chi fugge [dalla propria interiorità] si svuota, non fa altro che ingozzarsi di presente. (1)
Questo moto continuo, però, questo continuo “ingozzarsi di presente” ha un prezzo. E anche restare in equilibrio sull’onda ce l’ha. Per liberarsi dal giogo e vivacchiare un po’ tranquilla c’è un altro espediente che la mente sa attuare; è un giochetto sagace chiamato: “per sempre”.Il cuore è ingenuo, fa presto a convincersi. Non può che essere così, per sempre: pur di ingannare l’ansia di quel che mi riserva il futuro io oggi ho bisogno di credere che ti amerò per sempre, che un figlio è per sempre, che una ricchezza sarà mia per sempre, che il mio lavoro di ogni giorno sarà per sempre. Persino quando non abbiamo nulla altro che paura e rancore la mente fa credere al cuore che questo momento sarà per sempre.
Tutti, re e imperatori, uomini per lo più ritenuti saggi, in alcuni casi ispirati dagli dei o da Dio in persona, hanno governato i propri domini come se fosse per sempre. E mai nessuno è riuscito a sopravvivere all’idea che il suo potere un giorno non sarebbe stato più. Basti pensare a Napoleone nell’esilio di S.Elena o a Carlo V, l’uomo sul cui impero non tramontava mai il sole, che quando abdicò e si rinchiuse a Yuste in un monastero arroccato sui monti dell’Estremadura nel cuore della Spagna, non sopravvisse che poco tempo alla propria fine.
Potremmo voler credere che la fama delle gesta compiute o delle battaglie vinte da costoro abbia permesso loro di guadagnarsi l’eternità ingannando la morte. E per quanto ancora?, per il tempo che può durare la nostra civiltà o la vita stessa sulla terra? Quando il sole sarà una gigante rossa, e fra un tempo inimmaginabile di miliardi di anni avrà inghiottito Mercurio, Venere e Terra, che cosa resterà della fama dei nostri condottieri o dei nostri uomini illustri o degli uomini illustri e dei condottieri di altre civiltà che si succederanno sulla terra? In verità già adesso a Carlo V o a Cesare o a Napoleone non può fregare più niente, stesi nelle loro tombe monumentali, che i nostri ragazzi siano costretti a studiarne le gesta sui libri di scuola. Non era quella l’eternità che cercavano. E se mai l’hanno sognata così si illudevano perché non esiste una eternità dopo la morte. L’eternità ha senso solo quando si è in vita, giacché gli attimi di vita presente, quando si ha ancora la forza di amare e combattere per qualcosa, sono l’unico modo che l’eternità ha per esistere.
La vita stessa è eternità, il che non vuol dire che durerà per sempre, vuol dire che contiene in se stessa tutto il tempo possibile e tutto l’amore possibile e tutta la gioia, tutta la forza, tutta la redenzione possibile; e l’uomo ne è il custode. Sta a lui esserne o meno consapevole. Il regno del per sempre invece è un regno infernale. Per convincervene tornate a leggere il V Canto dell’Inferno, voi che oggi siete professionisti o uomini di cultura.
Francesca racconta a Dante di essersi protratta a leggere con il suo amante Paolo il libro che narra la storia di Lancillotto del Lago che si innamorò della principessa Ginevra moglie di Artù. E’ questo il libro Galeotto che scatena la passione fra Paolo e Francesca. Il bacio fra i due amanti è proprio l’attimo in cui le loro vite si spezzano per mano del marito offeso, Gianciotto Malatesta. Dante che ascolta questa storia, sopraffatto dalla commozione, sviene.
Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangea, sì che di pietade io venni men così com’io morisse; e caddi come corpo morto cade.
Si sono chiesti a lungo i commentatori e penso un po’ tutti noi studenti di un tempo, come fosse possibile che un uomo come Dante avvezzo alle più dure lotte politiche fosse sopraffatto a tal punto dalla commozione per le lacrime di un amante da svenire. Natalino Sapegno, indimenticato commentatore della Divina Commedia (2) spiega che la pietade è la tristezza che nasceva dal contemplare quella infelicità senza scampo. E’ vero: Dante sviene perché il pianto di Paolo è un pianto per sempre. Un dolore senza consolazione è un dolore fuori dalla vita perché la vita è cambiamento ed è anche consapevolezza del cambiamento; il che significa speranza. E in quello spazio del cuore dove c’è speranza la morte non ha ancora bevuto del tutto da noi eternità.
(fonte: http://enrico-coluccia.blogspot.it)