Ma che caldo fa
Aspettando la giornata della Terra il prossimo 22 aprile,
Stefano Quarta
un segno importante la creazione del Ministero per la transizione ecologica
Una branca dell’economia è data dall’Econometria, che si occupa delle verifiche empiriche della teoria economica. In pratica verifica, utilizzando metodi quantitativi (matematico-statistici), che la teoria valga effettivamente nell’economia reale. Schematizzando, gli economisti si occupano della teoria, gli econometrici la verificano (e i consumatori si occupano della pratica).
Una delle tantissime tecniche econometriche è il Data Envelopment Analysis (DEA), col quale si stima l’efficienza di un gruppo di unità produttive prese in esame. Le unità produttive, per essere tali, utilizzano una serie di input per produrre uno o più output. Ad esempio, un’impresa siderurgica produce acciaio utilizzando il minerale ferroso, scarti di acciaio e i macchinari necessari. Quindi, applicando il DEA al settore siderurgico, si analizzano gli input e gli output di tutte le aziende siderurgiche esaminate, ricombinandoli molte volte fino a “trovare” le combinazioni migliori. Tali combinazioni prendono il nome di frontiera empirica delle possibilità produttive. Si tratta del limite di efficienza oltre il quale è ragionevole pensare che non si possa andare. Pertanto, la distanza di ogni singola impresa dalla frontiera è la misura dell’inefficienza. In Figura 1 si può vedere come l’inefficienza possa essere intesa in termini di output non prodotto a parità di input utilizzati (distanza verticale) o in termini di input sprecati dato un certo output prodotto (distanza orizzontale).
Il DEA nasce nel 1978 da un articolo di Charnes, Cooper e Rhodes. Negli anni la tecnica si è ovviamente evoluta e nuove varianti sono state introdotte. Ma solo nei primi anni 2000 si pensò di includere la variabile ambientale, giungendo quindi ad una formulazione di eco-efficienza. In particolare, si incluse un output cattivo, inevitabilmente prodotto insieme all’output desiderabile. L’output cattivo può essere, per esempio, la CO2. L’introduzione dell’output cattivo può, in alcuni casi, stravolgere la classifica di efficienza delle imprese. Si scopre, a volte, che le imprese più efficienti traggono il loro vantaggio dallo sfruttamento dell’ambiente. Nulla di sconvolgente, eppure questa sensibilità al tema è piuttosto recente. Per decenni si è dato per scontato che l’ambiente fosse tanto forte da sopportare qualunque livello di inquinamento. Negli ultimi anni, però, è divenuto sempre più evidente quanto questo assunto fosse sbagliato. I cambiamenti climatici sono ogni anno più evidenti e la colpa non può che essere nostra.
Nella Repubblica dei 67 governi in 78 anni, piace rinnovare. Ma è un rinnovamento apparente. In statistica si chiamano permutazioni, quando cioè gli elementi rimangono gli stessi e quello che cambia è solo l’ordine. Come routine che è l’anagramma di unitore.
Questa volta si è deciso di affidare le sorti del Paese ad uno degli italiani più apprezzati in tutto il mondo, colui che, con tempismo perfetto, permise alla BCE di acquistare i titoli di stato dei Paesi europei in difficoltà, permettendo una generale riduzione dei tassi di interesse pagati dagli stessi. In particolare, ci piace pensare che quel gesto, benché obiettivamente necessario, sia nato da un patriottico dispiacere per le sorti del suo stesso Paese.
È troppo presto per formulare qualsiasi giudizio sul governo Draghi, perciò mi limiterò ad augurargli buon lavoro, nonostante le evidenti difficoltà che un governo così eterogeneo si troverà ad affrontare. Un aspetto, tra i vari, è stato molto enfatizzato: la creazione del Ministero per la transizione ecologica. In realtà questa scelta si colloca nel solco di un rinnovamento green che prende spunto molti anni fa. In Italia, la mentalità sta cambiando velocemente. Non siamo il Paese più all’avanguardia nel campo dell’innovazione ecologica, ma non siamo nemmeno insensibili al tema, ma il tempo è praticamente già scaduto, perciò occorre fare ancora più in fretta.
Un video della Nasa del 2019 mostra, con un impressionante colpo d’occhio, il progressivo riscaldamento globale. Colpiscono due decise accelerazioni, una negli anni ’70, in cui iniziò un diffuso (seppur contenuto) aumento climatico; la seconda a cavallo tra gli anni ’90 e 2000, durante il quale l’emisfero boreale ha visto un aumento delle temperature ben più consistente che nel passato (in Figura 2 vi è il frame dell’ultimo dato disponibile nel video di cui sopra).Come si può vedere, l’aumento colpisce tutti i Paesi, Italia compresa. Secondo i dati Istat, nel 2019 si è registrato un aumento medio della temperatura (tra le città capoluogo di regione) rispetto alla media del periodo 1971-2000 pari ad 1,42 gradi. Vuol dire che fa più caldo di quasi un grado e mezzo. Può sembrare poco, ma non lo è affatto, perché questo è solo il valore medio. In Tabella 1 possiamo vedere come Perugia, Milano e Roma abbiano registrato aumenti oltre i 2 gradi.
In Tabella 1 possiamo vedere anche come siano aumentate le temperature minime e quelle massime, evidenziando un aumento degli eventi estremi. Nelle ultime quattro colonne vi sono i giorni e le notti calde e fredde. L’Istat definisce le notti calde come il numero di giorni in cui la temperatura minima giornaliera è superiore al 90° percentile; i giorni caldi invece come il numero di giorni nell’anno con temperatura massima giornaliera > 90° percentile; specularmente per le altre due definizioni. In pratica a Roma, nel 2019, ci sono stati 142 giorni in più rispetto al passato in cui la temperatura massima è stata tra le più alte del periodo di riferimento. Guardando i dati possiamo vedere come in quasi tutte le città si registrino molti più picchi, sia freddi che (soprattutto) caldi.
È il cambiamento climatico! Estati sempre più calde, inverni che possono mostrare giornate insolitamente fredde ed una temperatura che mediamente sale. Questa maggiore temperatura si traduce in un’energia maggiore presente nell’atmosfera, la quale può più facilmente generare eventi climatici estremi come tornado, uragani, bombe d’acqua e alluvioni.
In tutto ciò l’interesse economico ha giocato il ruolo fondamentale di fattore scatenante. Se non fosse stato per la necessità di fatturare di più senza curarsi della ricaduta ambientale non si sarebbe arrivati a questo punto. Se 70 anni fa si fosse inserito nei bilanci la ricaduta ambientale, sicuramente oggi ci ritroveremmo in una situazione migliore. Nel 1997 fu siglato il protocollo di Kyoto con cui gli Stati ammettevano un nesso tra le emissioni umane di gas serra e il cambiamento climatico. Per avere l’entrata in vigore del trattato si dovette attendere il 2005. Tra le varie misure fu istituito un meccanismo di permessi di emissione, attribuiti ai vari Paesi e ai vari settori produttivi secondo le emissioni storiche. In pratica, siccome le imprese siderurgiche avevano tradizionalmente emesso molta CO2, gli si attribuì il diritto di continuare ad emettere più degli altri, sebbene limitandone il quantitativo totale. Fu messo in campo un meccanismo di compravendita di questi diritti di emissione, per cui le imprese più virtuose vendevano una parte dei propri diritti inutilizzati alle imprese meno virtuose che, quindi, pagavano per continuare ad emettere più CO2 del dovuto. Si trattava di un sistema rudimentale che tendeva a limitare la sola quantità complessivamente prodotta e negli anni si cercò di affinare il sistema. Ma negli anni ’90 la cultura di massa prevedeva ancora la libertà di gettare mozziconi e cartacce per strada senza il minimo peso morale del gesto. Perciò, contestualizzando quel trattato, fu un enorme passo avanti. Assolutamente anacronistica fu invece la decisione di Trump di uscire dall’Accordo sul clima di Parigi. Ed infatti Biden ha rimediato non appena insediatosi. Perché oggi sappiamo che non è più sufficiente pagare per emettere, è troppo tardi. È tardi per pagare un accettabile prezzo economico. Ad oggi, dobbiamo iniziare ad entrare nell’ottica di dover pagare un prezzo economico maggiore. Se avessimo agito 70 anni fa, forse sarebbe bastato aumentare i prezzi dei prodotti di una piccola percentuale, il 3-5%. Oggi invece potremmo dover accettare rincari ben maggiori. Pensiamo all’immane ricaduta ambientale di mostri industriali come il polo siderurgico tarantino. Lì, per decenni , l’ambiente è stato messo da parte. Ma possiamo pensare anche a realtà meno conosciute come la Caffaro nel bresciano. Un’impresa chimica che ha sversato per un secolo mercurio, diossine, tetracloruro di carbonio ed altre sostanze altamente inquinanti. Ad oggi si stimano dei costi di bonifica di 85 milioni di euro, a fronte di un fatturato annuo (dichiarato sul sito della stessa impresa) di 55 milioni di euro.
Concludo con l’augurio che l’istituzione di un apposito Ministero sia quel primo passo necessario verso un approccio globale all’etica ecologica che vada oltre la mera logica degli eco-incentivi. Perché, come ho spiegato in passato, gli incentivi servono per invogliare i consumatori a fare in autonomia le giuste scelte, senza imposizioni; ma è anche vero che gli incentivi hanno bisogno di tempo per far vedere i propri frutti e, in questo specifico ambito, il tempo è finito.