a Mario
Il vivere da ragazzo della via Paal
di Francesco Pasca
Leggo stamane della morte della Commedia Italiana, della creatività del secolo scorso. Già Comencini e Risi ne avevano dato inizio e fine di quell’atto creativo. Non mi stupisce la morte, non mi stupisce il dramma, né tanto meno la tragicità già segnata da un quartetto (Amici miei) in cui è palese il mondo vissuto ed il testamento spirituale di un uomo che nell’esprimersi trova nelle parole la maniera di confidarsi ad un altro uomo, Gian Luigi Rondi: «Cosa c’è di più tragico di un quartetto di vecchi che si mascherano da giovani perché hanno capito che sono arrivati all’anticamera della morte?». Ma Monicelli non ha mai mascherato né gioventù né vecchiaia, né le ha ostentate. Il suo sano modo di essere seriamente graffiante e non euforicamente trascinante lo ha portato a farci condividere altre tragicità ironiche. Alla maniera di quanti intorno a lui si sono avvicendati, ne ha ulteriormente segnato non solo i confini in cui muovere, ma ha anche dettato la sua straordinaria capacità di comprendere il mondo. Sin dal 1935, ai primordi, con una pellicola da 16 mm. dava corso al suo cinema con I ragazzi della via Paal, allora era coadiuvato dal regista Alberto Mondadori. Quelli della mia generazione hanno vissuto con quei ragazzi ungheresi, con quel gruppo-banda ed il suo capo. Csele, Nemecsek, Csonakos, Weisz, Gereb, Kolnay ed il loro capo Boka, sono stati i Filippo, i Francesco, i Giovanni e i Tanti altri che inesorabilmente, insieme a me-noi avrebbero segnato altre vie parallele, distanti o incrociate dall’avventura delle proprie esistenze. Monicelli è ancora uno dei ragazzi della via Paal, ma non è il piccolo Nemecsek, il minuscolo ragazzo biondo, esile e molto ubbidiente con una spiccata ammirazione nei confronti del “generale” Boka, non vuole svolgere sempre alla perfezione i compiti a lui assegnati, nella speranza di essere “promosso” di grado, né tanto meno è il rivale dei giardini botanici. Non vuole essere nemmeno il capo sia dell’una o dell’altra banda. Monicelli è il trasgressivo, ha l’aspetto da “garibaldino”, non sopporta l’affronto, il tradimento, il furto della sua bandiera. Nella giornata appena trascorsa ha voluto, per pochi istanti, assumere i panni di Nemecsek e di morire. Ha indossato il suo Montgomery di lana chiara, i suo pullover colorato, la sua calottina in testa con fiocco. Ha voluto indossare la sua giovane descrizione che di giovane v’è solo l’euforia, lo slancio del toscanaccio, il piacere di tagliare a fette l’avversario senza far sgorgare una stilla di sangue. Ha inseguito, di contro, il tono serio della morte. Ha dato la contraddizione con se stesso e con la sua attività. Ha segnato le sue logiche precise. Totò, Fabrizi, Sordi, Tognazzi, Gassman, Montesano, Vitti e Mastroianni sono stati insieme a lui per un momento sulle barricate di una segheria a vapore. Dalla precaria vita ospedaliera ha voluto indurre il nemico, il Franco Ats di turno, a piangerlo come piccolo eroe.