Racconti
nell’Odissea delle Parole
Riflessioni su Racconti patafisici e pantagruelici di Ignazio Apolloni
di Francesco Pasca
Ventisei le scritture patafisico-pantagrueliche di provenienza dal più sornione, creativo, burlesco, funambolico, tumultuoso degli scrittori affabulatori da me conosciuti. Sono trascorsi trentacinque anni, un altro ieri da quell’incontro con quel fauno arguto dalla penna per flauto presso il laboratorio di poesia di Novoli dell’amico Enzo Miglietta. È fertile la terra di Sicilia, lo è anche di quel pezzo che guarda ad occidente e si sbriciola in altrettante isole dal nome e dai rumori di nuova scrittura contesa fra Palermo e Trapani. Isole con scrittura da arcipelago come Fa-vi-gna-na, Le-van-zo e Ma-ret-ti-mo. Con altre isole che s’aggiungono alle isole e col nome di Formica, di Maraone, di Stangone, di Galera, di Galeotta e Fariglione. Isole tutte unite dal mare che fanno, dettano il “favorevole” o “il propizio”. Sarà la mitezza del clima o la pescosità di quel mare a determinare una sì alta vivacità creativa, una sì iper pescosità nelle acque dalla tempesta di nuova letteratura in progress. Sarà per l’isola che c’è. Sarà tutto questo perché l’isola ha un altro nome, che s’aggiunge.
Ignazio Apolloni è ancor’oggi nella mia biblioteca e questa si è riproposta con l’arrivo di un dono dall’amico, un volume edito da Manni: “Racconti patasfisici e pantagruelici”, collana pre-testi, 2000, introdotto in prefazione da Stefano Lanuzza. L’ho riletto volentieri e ne faccio nuovo giudizio. Così introduce il Lanuzzi:« … una perigliosa cartografia mentale quella delineata da Ignazio Apolloni in questi suoi racconti contenenti una sorta di romanzo iterativo e votato all’esplorazione di allegorie arcane e luoghi comuni; all’inquietudine e al movimento, al pellegrinaggio e al rapinoso viaggio … itinerarium tra fatiscenti miti metropolitani e un terzo mondo occidentalizzato, scorribanda indocile alla tradizione …» Così conclude: «… quanto non può ricalcarsi sulle usurate carte della consuetudine letteraria.»
Da ciò che estrapolo, chi introduce, trova ed esorta, nell’immediato, alla cautela nell’affrontare il suo mare, l’increspata scrittura. L’atto creativo può sorprendere. Con quest’invito, d’altronde, ben conoscendo Ignazio, non ho avuto alternative e ho ripercorso l’Odissea dei suoi ventisei approdi. Da tempo corriamo e ci inseguiamo, e, a fasi alterne, ognuno di noi ha vestito i panni di chi, all’inizio della propria navigazione, ha avuto la sorte di una o più tempeste. Vi è stata, per la singlossia, la prematura scomparsa di Rossana Apicella, che ci ha lasciati in ciò che fu voluto dal Poseidone di turno. Fu così che, la poesia visiva ci ha visti uniti e divisi in “Tracia”, nel paese dei “Ciconi”, oppure lì dove il vento del Nord ci spinse nel paese dei “Lotofagi” del Ciclope Polifemo dalla scrittura monoglossica. Lo stesso “Eolo” ci ha voluti nella sua isola in una mostra tenutasi presso il Rettorato dell’Università di Palermo con la Singlossia. È stata Una navigazione a vista perenne, dove, a caso, il verso-senso del Nord ci ha fatto approdare. Ma un approdo non vuol dire riposo perché si può incappare nel paese dei “Lestrigoni”, degli antropofagi che lapidano e divorano i nuovi poeti visivi e che fracassano le immagini delle loro navi.
Quante volte ci è toccato recidere il cavo del nostro passato per prendere nuovamente il largo. E, poi ancora, quante le Sirene fra le Rocce Vaganti e fra quelle di Scilla e Cariddi. In poesia mai si giunge all’approdo se non lo vuole Poseidone. Può solo accadere che si separino i due Ulisse. Il primo andrà a cercare i bianchi buoi appartenenti al dio Sole. Il secondo andrà a cavalcare i bianchi cavalli di messapia. Sono contento di rileggere ancora una volta l’amico Ignazio con “Racconti patafisici e pantagruelici”. Sono contento di ridiventare ancora una volta Odisseo con la lettura al suono di Geena, di Ginevra e Genoveffa, di D’ossola o Domodossola, di una Barbara o di Barbra. Sono contento quando leggo la conclusione del suo primo approdo, non più navi ma aerei:«Ora è sull’aereo di ritorno, diretto a Ginevra, la faccia rivolta all’oblò e lo sguardo perso nel vuoto. Visto dal vuoto è un volto come tanti, che però aveva una storia dentro di sé da narrare: cosa che è riuscito a fare solo perché chi scrive gliel’ha tolta. Malauguratamente tuttavia, e ciò in quanto senza di essa non gli è rimasto più niente da dire a chi legge.» (pag. 21) Questa è la ninfa Geena-Calipso e ora il lui può ancora salvarsi aggrappato ad un albero, sballottato dalle ali del mare e dalle eliche per nove giorni per poi tornare a fuggire. Dal primo di quei racconti salto in groppa alla Luna ed eccomi nel cuneo di un, di una Delta, di una Lancia da “bang”, da” particelle nucleari”, lì sono anch’io a fare il mio elogio dell’asfalto senza dimenticare di essere anche un po’ tunisino e un po’ mannaro lunatico. Scrive Ignazio, Tabarka è luogo di buoi, di mandrie di buoi e di mannari mandriani e non resta altro da fare a Gaio. È Gaio che abbandona la sua Circe e i buoi tornano sulle strade di Tabarka:« Lei non seppe più nulla di Lui se non dopo molto tempo. Apprese comunque da questo racconto che Gaio, per cercare di spiegarsi da che cosa ormai era affetto, intraprese un viaggio verso un luogo da cui è possibile vedere meglio la luna.»(pag.59) A pag. 146 il nostro Ulisse interroga ancora una volta l’ombra del suo indovino: «cos’è l’arte moderna? “Tiresia” diventa Gedeone e dà da sé la risposta:«È un cunicolo pieno di idiozie!». Il dono di siffatta profezia proviene dall’essere Dio e, come risarcimento alla sua cecità, alla sua mancanza di corpo, dal collo in giù sino alla pianta dei piedi, pretende di essere solo testa. l’Arte mai e poi mai verrà vista nuda. I Proci dovranno attendere un filare-filare-filare infinito di una tela che l’avvolga per poi essere finalmente guardata. Conti alla mano, sarà sufficiente: «… Anzi basterà infilare con forza il dito nella sabbia; farlo funzionare come fosse un drill ed ecco finalmente il drin drin, il campanello d’allarme a dirci che ci siamo … I calcoli sono esatti. La vetta dell’Ararat. Lo spigolo alto della piramide di Nicerino. Lo shatt-el-arab. La punta estrema delle mura di Ninive (quella che indica la confluenza del Nilo con il Mediterraneo) sono tutti segni utili: mi dicono infatti che sono là dove ho deciso di essere … Basta poco e vedremo affiorare la testa di Gedeone?»(pag. 152) E, per finire, il tempo. E sì il tempo. È tempo di sostare, tempo di finire, quello del non più farla ammirare e poi il tempo che sterminerà tutti con la gara del suo arco:« scattò invece la molla (che aveva azionato in tutti quegli anni il congegno ad orologeria). Seguì una grande esplosione, e quindi una sorta di nuvola. Appena un’ora dopo non c’era più nulla, se non un cielo gravido ormai esclusivamente di pioggia.»(pag.203) Tutto questo grazie al mito di Ulisse presente in tutta la letteratura moderna, dell’uomo non fatto “a viver come bruto, ma per seguir virtude e conoscenza”. E, perché no, a rendersi utile col diventare il prototipo dell’esploratore infaticato, dell’uomo patafisico e oulipiano, di ciò che può essere tradotto con l’utilizzo della “scienza delle soluzioni immaginarie”. Con Ignazio leggerete di Achille, di Agelao, di Aiace, di Antinoo, di Argo, di Calipso, dei Ciclopi, dei Ciconi, di Circe, di Laerte, dei Lestrigoni, dei Lotofagi, di Medonte, di Nausicaa, delle tante Penelope, di Polifemo, dei Proci, di Telemaco, di Tiresia, di Mallarmè, di Lautrèamont, di Bloy, di Verne, di Queneau, di Calvino, tutti insieme salpati da “Troia” e approdati nel “Meridione d’Italia” nel paese dei negromanti moderni. Buona lettura, solo se adotterete l’immaginario.