Una cascata di parole per ritrovare il senso della vita

I luoghi della parola/ spazio recensione

Mena  di Lucia Accoto

di Federica Murgia

Una parola per dire spicciati o il diminutivo del nome della nonna Filomena o Mena? È una domanda che mi sono posta e mi è rimasta in mente durante la lettura.

Mena, mena è un invito a sbrigarsi oppure è un omaggio alla tanto amata nonna Mena?

Leggendo questo libro mi sono ritrovata nel cuore del mondo salentino d’altri tempi, sicuramente non molto lontani dal nostro: anche perché trattenuto nei ricordi come cosa preziosa.

Descrizioni fatte con uno stile elegante, scorrevole, coinvolgente e solo all’apparenza semplice, che Lucia ha fissato, mettendosi a nudo, in una cascata di parole che si sono rincorse per ritrovarsi e dare senso alle situazioni e al tempo.

Sono cose che la narrano, rappresentando il suo mondo, che è stato un po’ il mondo di tutti noi. Sono piccole cose, spesso riguardanti ambienti familiari, eventi domestici che  sono ormai nei ricordi, ma anche nei significati attribuiti che hanno fatto diventare Lucia quello che è. Ricordi significativi con punti di forza o di debolezza che alcune volte le hanno reso e ci hanno reso difficile l’esperienza di vita.

 

Lo spauracchio virale di Lucia, perché di un virus si trattava, che arrivava proprio nell’ora di matematica, che le procurava nausee e mal di pancia impedendole di vivere serenamente il tempo della scuola molti di noi l’hanno avuto. Umiliazioni. Un vuoto di memoria che portava alla punizione mortificante di un’allieva, frutto di assenza di sensibilità degli insegnanti, ci presentano Lucia seduta, sola, nel banco “faccia al muro” vicino al cestino dei rifiuti: perché chiaramente, nel suo cuore sentiva che non poteva esservi sistemata dentro!

La stessa umiliazione da me avvertita quella volta che ebbi la ventura d’indossare la mortificante “corona d’asino”. Le orecchie dell’asineria mi parevano così lunghe che non finivano più! Faccia al muro con le orecchie d’asino e un pizzico arrotolato infertomi dalla maestra che mi fece gonfiare la guancia così tanto, che con tutta la buona volontà e l’acqua fresca che le collaboratrici scolastiche e la maestra stessa  mi mettevano, non riuscirono a far passare. Fu un finimondo! All’uscita da scuola mi ritrovai in caserma, stretta per mano da mia madre che mi pareva immensa, davanti al maresciallo, per denunciare l’insegnante!

I parenti e gli amici della maestra accorsero per dissuadere mia mamma dal presentare la denuncia. Alla fine davanti al maresciallo la maestra in lacrime s’impegnò a non picchiarmi più e da quell’evento tutti i suoi alunni stettero meglio. Un’esperienza che per un momento escluse Lucia e me stessa dal mondo classe per immetterci in riflessione senza logica, senza risposta, senza costrutto: riflessione d’angoscia che rendeva l’interrogazione, la lavagna, il foglio bianco un tunnel senza via d’uscita.

I libri, le riflessioni e lo scrivere erano e sono per Lucia il suo Io: l’esigenza interiore di raccontare o di scoprire, fra le parole incanalate una appresso all’altra, altri mondi altre sensazioni. Le stesse impressioni che si hanno nello scoprire l’animo delle persone, le loro storie, spesso, suggerite dagli occhi. Lucia sfugge il superficiale per inoltrasi in mondi segreti di se stessa e degli altri. Un momento della lettura che mi ha fatto venire in mente mio nonno e la mia bisnonna è stato quello dell’osservazione delle labbra degli anziani che continuano a muoversi mute ma suggeriscono racconti di vita, sacrifici, dolori e gioie. Mio nonno soleva esclamare, tutto solo “mah”, come se fra se e se avesse fatto un discorso intero e fosse in quel momento giunto ad un dubbio della vita che va troppo di fretta! Anche quando si è prossimi ai cento anni!

Mena, andiamo, sbrigati o Mena come la tanto amata nonna che la portava alla scoperta di  segreti e tradizioni, l’universo di parole non le bastano per descriverla nella sua casa di via Roma.  Lucia riscopre la nonna nelle faccende domestiche, nei colori, nei profumi e nei muretti. La riscopre nella sua casa nel calore della corte, nei chiacchiericci o nella camera dove il dipinto della madonna se si era bravi elargiva caramelle e acquietava la vivacità infantile. Anche scrivere è un acquietarsi, un calmarsi seguendo i pensieri, i profumi portati dal vento delle parole nell’istante vita di un momento. Uno stagno di macchie d’inchiostro che prende forma in una descrizione che coglie fatti e sensazioni. Macchie che sono capaci, sempre, d’asciugare le lacrime, di un dolore profondo e antico. La narrazione si fa poesia, anche, quando descrive un fatto tecnico come il bernoccolo delle volte a Stella o la terrazza dove venivano seccati i fichi da preparare con le mandorle. Fichi che venivano donati ai bimbi o dispensati in alternativa ai pasti in tempo di grande fame.

Quando venni per la prima volta in Puglia fui incantata dalle luminarie, non d’uso da noi. Nel leggere il libro ho avuto grande perplessità mentre le parole di Lucia mi descrivevano la festa vista negli occhi degli altri e non vissuta in prima persona. Una festa ascoltata a causa d’una promessa che poneva il vincolo che le impediva d’attraversare il tunnel di luci. Dormire nell’attesa del rientro del fratello che sicuramente avrebbe avuto nel cuore la gioia della festa ed un sorriso! Un sorriso che poteva emergere quando d’estate, presa per mano dalla madre, accompagnava la Vergine in processione.

IN QUESTO SENSO, SPERO CHE LUCIA Mi PARLI DELLA PROMESSA CHE LE IMPEDIVA D’ATTRAVERSARE IL MONDO DI LUCI E COLORI.

Ho trovato bellissime le descrizioni della vita agreste, la sorpresa dell’acqua fresca, uno specchio che graziava e alleviava i segni del tempo e delle sofferenze alle persone care, i giochi lontani ma sempre gioiosi che le rendevano vive le sensazioni.

Prendere la patente per guidare la bicicletta era stato per lei impegnativo. Io sono riuscita ad immaginare Lucia nella cantina sulla vecchia bicicletta dalle ruote sgonfie.

Le ruote sgonfie non erano un problema, tanto era la voglia d’imparare e perché il luogo segreto dove faceva la pratica era così ricco d’affetto che quasi mise in ombra la nuova bicicletta rosa con le ruote gonfie.

Se il suo apprendistato come ciclista era stato impegnativo non da meno  fu il mio di diventare cavallerizza, cavalcando i cavalli senza sella perché con la sella era molto semplice. La cosa era piuttosto ardua! Per salire in grappa mi servivo dei muretti e i ruzzoloni non mi facevano demordere dall’impresa!  Sceglievo le cavalle che in genere erano più tranquille e mai avrei osato farlo con Fiore un possente cavallo, figlio d’un grande campione, che poteva essere cavalcato solo da mio babbo. Fiore veniva prestato in cambio di un capo di bestiame ai proprietari di cavalle per la monta. Presi la patente di cavallerizza con molte cadute e bernoccoli!

Le pagine del libro sono state per me un’immersione nei cassetti della memoria.

Il collegio ai miei tempi era uno spauracchio che fortunatamente non avevo mai sperimentato! Ma la volta che mia sorella andò in colonia vi rimase per una sola settimana! Alla prima visita mia madre fece preparare i suoi bagagli e la portò via con un’opinione molto negativa rispetto alle colonie e ai collegi, Fortunatamente per noi!

Chiudere una persona è come chiuderne i pensieri, la gioia di vivere e se una persona si trova rinchiusa in regole e prospettive non condivise diventa tragico. Capisco Lucia  che ha dovuto lasciare le piccole cose familiari per essere “chiusa” ma non imprigionata nei pensieri che le consentivano di liberarsi con il solo  ricordo del profumo e del rito del sugo di casa, usato subito, ma anche nei ricordi, come companatico gustosissimo. 

Ho immaginato i lunghi fili di foglie di tabacco preparati con sacrificio per essere poi mandato in fumo. Pur non avendo conosciuto questa coltura grazie a Lucia ho sentito gli insetti che svolazzavano  e la collosità che incollava le dita mentre si infilavano le foglie che impregnavano sino all’animo  le addette, senza orario, che cercavano di mantenere una certa eleganza non togliendosi i monili.

La fuitina, escamotage dei matrimoni poveri, ho avuto modo di conoscerla. Insegnavo ad Orgosolo e una mattina, mentre andavo a scuola, mi imbattei in una “Ia de palla” via di paglia. Mi meravigliai e mi resi conto che partiva dall’ingresso di una  casa per giungere all’ingresso di un’altra.  Conoscevo la signora che aveva 80 anni e scopri che il signor che abitava dall’altro capo della via della paglia aveva qualche anno in più di lei. Tutti pensarono ad uno scherzo ad eccezione dei parenti che fecero molto baccano. Alcuni giorni dopo incontra un mio amico, Mauro, grande giornalista dell’Unione Sarda, che in segreto mi disse che era lì perché voleva fare un articolo su questo matrimonio che i due anziani intendevano contrarre. Matrimonio molto osteggiato da tutti i parenti che non volevano perdere il patrimonio. Io non sapevo nulla ma Mauro era ben informato così alle 5 del mattino l’indomani ebbi modo di vedere i due che si recavano in chiesa, con testimoni forestieri, per il matrimonio segreto e già consumato abbondantemente.

Nel libro di Lucia si riscoprono valori della vita, cadute e rinascite, metafore e descrizioni di cose semplici che assumono significato.  Come i fichi d’india che rappresentano totalmente il significato dell’essere: mai guardare all’apparenza! Per tutte le cose bisogna saper vedere altre la buccia spinosa.

Lucia ha superato la prova ed aperto la brocca delle parole che sono venute a fiotti a descrivere con maestria i luoghi (paesaggi del suo animo) le sue immagini non più segrete ci portano alla scoperta dei ricordi, aspirazioni e sogni.

Cadute e risalite diventano il bellissimo libro che è un’immersione continua nella vita e nella crescita.