Gli spazi nascosti del convento di Lequile

di Sara Foti Sciavaliere

LEQUILE (LECCE). A Lequile, uno comuni della prima cintura urbana di Lecce, nella Valle della Cupa, si trova uno dei complessi conventuali che custodisce un antico fondo librario. è il Convento dei Francescani, costruito tra il 1613 e il 1619 da maestranze locali, ha superato indenne le varie soppressioni delle corporazioni religiose in Italia.

Superato il corridoio della portineria, il visitatore si immette nel chiostro, fino a poco tempo fa verdeggiante delle piante di cui si prendevano paziente cura gli ultimi due frati che qui hanno vissuto. Ora la struttura passata in mano al Comune e stata parcellizzata affidandone la gestione ad associazioni locali, tra queste la Pro Loco che ci permette di dare uno sguardo in alcuni ambienti, laddove sono potuti intervenire tempestivamente contro l’incuria dell’abbandono.

Qui nel chiostro si può ammirare il classico quadriportico con al centro uno slanciato pozzo in pietra leccese, abbellito alla base da un caratteristico bugnato rinascimentale a squame. I corridoi chiostrali sono decorati da dodici affreschi del ciclo della Via Crucis commissionati dal frate lequilese Gregorio Cascione – allora guardiano del Convento – nel 1692, prima delle regola fissata da Clemente XII, nel 1731, che fissò in quattordici il numero delle stazioni canoniche. Degli affreschi del chiostro, oggi ne sono leggibile solo undici e sono opera di frescanti francescani. Non si tratta di opere di ottima fattura pittorica, tuttavia sono importanti, proprio perché rappresentano uno dei primi tentativi salentini di rappresentazione della Via Crucis precedente al decreto di Clemente.
In particolare, ne segnalo tre tra i più significativi. Entrando nel portico del chiostro, sulla parete di sinistra, la terza stazione – “Gesù condotto davanti al Sommo Sacerdote Caifa” –, qui vi è indicata la data di esecuzione delle opere pittoriche, oltre al nome di uno dei committenti “Lorenzo Cascione, il Sindaco”. Se da qui si percorre il braccio destro del portico, sulla parete di fronte, troviamo la settima stazione – “Caduta di Gesù, incontro con il Cireneo e la Veronica” –, dove sono fuse insieme le tre attuali stazioni delle tre cadute di Gesù, l’incontro con il Cireneo che nell’affresco vediamo (a destra) reggere parte del peso della croce caricata sulle spalle di Gesù prostrato a terra e (a sinistra) l’incontro con la Veronica in procinto di asciugare il volto sofferente dell’“Uomo dei dolori”. Sulla parete dove sono collocati gli accessi al piano superiore del convento, troneggia l’undicesima stazione – “Gesù risorge dalla tomba” –, questa rappresentazione costituisce una novità in rapporto alle attuali quattordici stazioni e ci mostra i soldati “spaventati” e accecati dallo splendore del Signore Risorto.
Dal chiostro si accede poi all’antico Refettorio, arricchito da dipinti murari realizzati con la tecnica del “mezzo fresco”, da “tavoli fratini” tipici delle mense dei conventi medioevali sorretti da supporti in pietra leccese finemente intagliati, da pannelli lignei acquerellati, e dall’originale pavimento in”cocci pesto”, dove si può ancora leggere in numeri romani la data di ultimazione dei lavori del complesso (1619). È l’unico refettorio ligneo del Salento giunto integro fino a noi, e forse addirittura in tutta la Puglia, quindi vale la pena di essere ammirato e visitato.
Sulla parete interna dell’ingresso, in una lunetta di 16mq, è raffigurato l’“Incontro di San Francesco e San Domenico”, inserito nel contesto del Capitolo delle Stuoie, [uno dei primi capitoli-raduni nella storia dell’ordine francescano, raccontato nel capitolo 18 dei Fioretti, il florilegio sulla vita di san Francesco d’Assisi e dei suoi discepoli. Sulla parete di fronte campeggia, invece, sempre delle stesse dimensioni, la “Cena del Signore”, scena tipica dei refettori conventuali, qui troviamo la presenza di paggetti che servono al tavolo e i commensali coinvolti con abiti dell’epoca di realizzazione dell’opera. Oltre ai due grandi affreschi se ne possono ammirare altri tre di estensione inferiore, con scene tipicamente francescane: il primo (sulla parete di destra) raffigura “San Francesco in barca con alcuni uomini sul lago Trasimeno”, che seda la tempesta; il secondo (sulla parete di sinistra) rappresenta “San Diego d’Alcalà che riceve la visita di un angelo” recante un sacco di pane per sfamare i frati privi del necessario. Al centro della volta a botte un medaglione con lo stemma francescano.
Si possono notare, infine, un artistico lavabo in pietra leccese dove i frati potevano dedicarsi alle abluzioni prima di ogni pasto, e i pannelli lignei degli schienali acquerellati, con soggetti profani, raffiguranti scene campestri, venatorie e marinare, che rinviano alle atmosfere dell’arte napoletana settecentesca, e potrebbero essere in qualche modo allusive alle stagioni.
Salendo per la scala principale, al primo piano, attualmente non accessibile, si giunge alla biblioteca, fatta costruire nel 1695 da Padre Gregorio Cascione, divenuto nel frattempo Ministro Provinciale della Serafica Riforma in Puglia. La biblioteca, intitolata a San Francesco, rientra nel circuito delle “Biblioteche di Terra d’Otranto” e conserva un fondo antico di 2093 volumi, tra cui cinquecentine, seicentine e settecentine di vari tipografi veneziani, romani, napoletani, francese. Una grande finestra centrale inonda di luce la volta a vela e lunettata, riccamente decorata con motivi floreali e abbellita con dipinti a “mezzo fresco” che riproducono i grandi Maestra della Scuola filosofico-teologica francescana, mentre sull’architrave della porta si possono notare i Maestri minori della scuola francescana nell’atto di prendere appunti con carta e penna d’oca.
Lasciato il convento, avendone l’opportunità, è interessante fare una capatina anche nell’attigua chiesa conventuale intitolata a San Francesco. Si presenta con una facciata lineare e all’interno a un’unica navata rettangolare che ospita otto cappelle. I due elementi di arredo liturgico di maggior pregio sono il Crocifisso ligneo del 1693 che sovrasta l’altare maggiore, il primo scolpito in Terra d’Otranto, e il tabernacolo, anch’esso in legno, realizzato alla metà del XVII secolo. Quest’ultimo è uno dei capolavori di ebanisteria di fra’ Giuseppe da Soleto, con una struttura a pianta pentagonale si sviluppa su tre livelli, terminanti con cupolino e croce superiore; ovunque, sulla superficie, sono distribuiti piccoli specchi, di cui alcuni originali dell’epoca della costruzione, a simboleggiare e a favorire l’irradiamento di luce dall’altare maggiore della chiesa. Il Tabernacolo-gioiello è ben sorretto da travi immurate e mascherate da un paliotto in legno venato che alterna motivi geometrici con volti umani, originaria balaustra del “Cori di notte”, e qui collocato nel 1973 in occasione della ristrutturazione dell’area presbiteriale.
È impossibile non alzare lo sguardo e soffermarsi a osservare, nella grande nicchia centrale dallo sfondo rosso cardinale, il Crocifisso seicentesco del calabrese Frate Angelo da Pietrafitta. Quest’opera suscitò devozione e ammirazione a tal punto che gli conventi desiderarono averne uno nelle proprie chiese, come di fatto avvenne (si veda per esempio quello nella Basilica di Santa Catrina d’Alessandria a Galatina, nell’ambulacro di destra, tra l’altare maggiore e quello di San Francesco). Il Crocifisso di Lequile è modellato con morbida delicatezza e allo stesso tempo con sano “verismo” ponendo in evidenza tenui rivoli di sangue, piaghe, lacerazioni e lividure. Oltre alle piaghe in vista sul volto a causa della corona di spine, sulle ginocchia per i segni delle cadute della durante la “via dolorosa” e quella costato trafitto dalla lancia del soldato Longino, vi è un’altra – invisibile all’occhio del visitatore –, ed è quella sulla spalla, generatasi nel portare il legno della croce: questa è una caratteristica dei crocifissi di Angelo da Pietrafitta. È suggestivo, infine, contemplare le tre espressioni di Gesù sulla croce: la serenità della sofferenza (visto da sinistra); la compostezza dell’agonia (visto dal centro); l’abbandono fiducioso nella morte (visto da destra). Davanti a una simile opera è spontanea essere mossi alla pietà e alla preghiera.