Il pianto dell’elicriso
di Vincenzo Abbati
Si premette che la poesia della Marzotta è poesia ermetica, poesia pura, libera, cioè, non solo dalle forme metriche tradizionali, ma anche da ogni finalità celebrativa.
Il tema è il senso della solitudine di chi ha perduto la fede nei valori universali, l’impossibilità di un colloquio fiducioso e aperto con gli altri, o, meglio, la coscienza del contrasto tra la realtà quotidiana e l’ideale di una vita diversa, irrealizzabile. È l’ossessiva ricerca di nuove forme, è lo strazio di chi, perduta l’illusione e la fede, si ripiega su sé stesso e scopre la propria fragilità esistenziale (…un indugio…e tristezza…d’innumerevoli forme e sembianze, /che passando rubano l’anima/ senza dar tregua, come aghi di seta…).Ma lei reagisce a tanta angoscia e sviluppa un crescendo creativo che, da una visione dolente dell’esistere, perviene al godimento della quiete, del silenzio; dal ruggito dell’anima ad un rapporto d’amore per il suo ambiente sociale (…ho risalito dirupi /annaspando tra i ruderi dell’anima/ e là/ silenzio,/ …o forse diamante tagliente/ che scalfisce… i vetri della mia prigione/ … e tra i voli alti dei gabbiani/ ritrovar la luce).
Un conflitto interiore che evidenzia l’anima di sé stessa pervasa da manie, ossessioni, nevrosi destinate all’incomunicabilità attraverso un linguaggio ermetico, grazie al quale la sua vicenda poetica inizierà quel lavoro di scavo intimistico da cui emergerà la volontà di conoscere e razionalizzare ciò che è confuso e caotico nella realtà (…tornerò alla ricerca del tempo perduto/alla mia terra ricoperta d’ulivi/… e, tra i singhiozzi/ abbatterò gli errori con rapide risate/ e abbandonerò le lacrime / sull’aride pietre). Sono poesie che “parlano” della sua lacerante delusione sulla caducità esistenziale, sull’ansia di una spinta catartica verso uno spazio senza voce, come quello del suo mare (E quando tutto avrà fine/ rivoglio l’abbraccio della mia terra/ …. e possa giungermi l’eco del mare/ a cantarmi dolci ninnenanne…).
Il lirismo della Marzotta è la storia di accadimenti illogici e speranzosi, è il distacco da quella ironia un po’ malinconica che le consentono di comprendere più a fondo gli aspetti multiformi ed ambigui della vita (La vita è una clessidra frantumata/ di questo tempo che passa/ tenace/ e consuma il suo fuoco di rossa candela/…chiudo i cassetti/ e metto a dormire i pensieri,/ fra cianfrusaglie dei ricordi più tristi/ e di sgradite amarezze/ sgualciti sul fondo…). Tuttavia, al di là di questi accadimenti illogici e speranzosi, la poetessa trova conforto nel ricordo degli affetti, delle nostalgie, dei rimpianti, nel distacco struggente del suo mondo familiare: la lontananza del figlio Riccardo, l’amore e l’ansia per la figlia Lavinia e, soprattutto, l’assenza e la lontananza di Troy, il nipotino che, al solo pensarlo, rievoca il ritorno di un mondo incontaminato, ingenuo e istintivo, che coincide in lei nel recupero memoriale dell’infanzia.
In fondo, nella sintassi poetica della Marzotta, c’è un po’ di tutti noi, c’è un po’ di quel pathos che quotidianamente ci tormenta, anche se a volte quella maledetta malinconia squarcia il velo delle care illusioni: sollievo dei mortali che sono stanchi di soffrire (ma io starò qui / oltre il confine del tempo…).
Vincenzo Abati
Arte e luoghi \ febbraio 2020