Cosenza bella e federiciana
La storia che vive ancora in noi
Antonio Giannini
Ero seduto sulle scale del sagrato del Duomo di Cosenza, in attesa dell’apertura del Museo Diocesano, assorto a ripercorrere con la mente tutto quello che durante la mattinata avevo potuto visitare di questo straordinario borgo antico così ricco di storia, che un brusio, fino allora percepito come sottofondo del fluire dei pensieri, si trasformò all’improvviso in una unica voce acuta e concitata di donna che, da come risuonava forte, pareva provenire dalle vicinanze.
Ma, diretto lo sguardo a valle della strada che fiancheggia il Duomo, a ben guardare, mi resi conto che veniva da notevole distanza, al punto che si poteva indovinare, a mala pena, un crocchio di persone al bordo della via intorno a due macchine della polizia. La donna continuava ad imprecare nel suo dialetto parole incomprensibili che avevano un non so che di minaccioso e musicale allo stesso tempo e, nel silenzio generale della prima ora pomeridiana, quella voce, che arrivava misteriosamente amplificata, rendeva la scena teatrale .
Mentre cercavo di indovinare il significato di quelle espressioni gridate verso chi sa chi, quando sembrava che la concitazione e le invettive stessero per raggiungere livelli di tensione esasperate ed incontrollabili, calò per qualche istante il silenzio seguito dal rumore sordo dello sbattere delle portiere delle auto della polizia, dal rombo dei motori che si accesero quasi all’unisono dileguandosi veloce giù verso la città nuova, lasciando il borgo in un silenzio surreale.
Forse perché suggestionato dai miei stessi pensieri che aleggiavano intorno a quel borgo così ricco di storia ed al segno così forte lasciato dai suoi protagonisti, quell’evento a cui avevo appena assistito, quella concitazione, il suo stesso rapido e drammatico svolgimento, quel ritorno inaspettato al vuoto silenzio, in quell’ora sospesa di un caldo pomeriggio d’autunno, lo percepii come metafora della vicenda umana, del tempo che passa, della storia ed i suoi misteri e di quello che ne rimane.
E li, in quel luogo dal fascino fiabesco, il protagonista, ancora una volta, era lui un uomo dai capelli e la barba rossa come il nonno, il grande condottiero, l’illuminato statista, il divulgatore della scienza e della cultura, il fondatore di università che chiamò alla sua corte filosofi, giuristi, scienziati, quanto di meglio la cultura avesse da offrire, era lo Stupor Mundi, Federico II di Svevia.
Questa città parla di lui soprattutto. Parla di lui il castello pervenuto dai suoi avi normanni, parla di lui il Duomo che fece ristrutturare dopo la sua distruzione a seguito di un terremoto, parla di lui e della sua stirpe questo borgo, parlano di lui, l’urbanistica della città antica su cui si è formato il dedalo di strade strette che si snodano attorno agli antichi edifici, chiese, conventi, case fortezze, slarghi e piazze. Parla di lui e dei suoi avi questo luogo strategico ed ameno, questa collina, incastonata come una pietra preziosa, tra i fiumi Crati e Busento.
E questa presenza ti sembra ancora più sorprendente trovarla qui in Calabria perché sei indotto erroneamente a credere che il Puer Apuliae, come voleva egli stesso essere chiamato, abbia un legame direi intimo ed esclusivo solo con la Puglia .
Fiumi di pagine sono state scritte sulla figura di Federico II ed intorno alla sua figura si è anche favoleggiato, ma in tutta la sua vicenda umana e storica ci sono a mio parere delle opere, che più del potere, del successo politico e militare, ne fanno un grande innovatore, un precursore dei tempi e sono quelle in campo giuridico e culturale.
Con i suoi editti di Capua il Regno di Sicilia divenne uno stato di diritto e questo rappresentò per il mondo medioevale, un avvenimento di portata rivoluzionaria in quanto demolì, senza traumi, l’influenza della chiesa ed affermò uno stato laico ed indipendente.
La cose che mi sta più a cuore ricordare della sua opera è la fondazione nel 1224 dell’Ateneo di Napoli, la prima università statale europea, dove, tutte le facoltà dovevano esservi rappresentate affinché, si legge in una iscrizione, “i digiuni e affamati di sapienza trovino nel Regno di che saziare la loro avidità”.
Così come furono Federico e i sui poeti i primi a verseggiare in volgare, cioè nella lingua del popolo, l’antico dialetto apulo – siculo, il che fa della corte di Federico la prima fucina della lingua poetica italiana passati poi alla storia col nome di Scuola Siciliana, da cui sarebbe nato il nostro volgare.
Mi chiedo, ci sarebbe stata la Divina Commedia alcuni decenni dopo, senza di lui?
Mentre ripensavo a tutto questo li in quella piazza in attesa dell’apertura del museo, pregustavo il momento che, di quella visita, era il vero oggetto dei miei desideri: vedere a pochi centimetri dai miei occhi la Stauroteca regalata dal Puer Apuliae al capitolo della Città in occasione della consacrazione del Duomo, poterne appezzare la bellezza di quel gioiello che, come recitava la brochure che avevo in mano, è il prodotto di tanta maestria di orafi arabi a Palermo il cui interno contiene un frammento della croce. Ma chi è affascinato della figura di Federico II di Hohenstaufen non può fare a meno di cercare in tutti gli oggetti che parlano di lui, anche i più infimi, un segno, un dettaglio sconosciuto di una storia avvincente.
La durezza dei gradoni su cui ero seduto da un bel po’ cominciava a mettere a dura prova i miei glutei e, data l’ora, mi alzai per incamminarmi verso l’entrata del museo ma, un attimo prima di alzarmi, pensando alla miriade di piedi che vi hanno camminato in tanti secoli su quei gradoni, immaginai il ventiseienne Imperatore quel giorno del 1222 posarvi i suoi per guadagnare l’entrata del Duomo, seguito da alti dignitari dell’impero tra schiere laterali di chierici e, raggiunto l’altare, lo vidi, col suo manto rosso decorato con l’aquila imperiale, consegnare nelle mani di un alto prelato la reliquia, e qui, mentre l’immagine sfocava, un pensiero ricorrente si fece ancora una volta avanti. E pensai al tempo che passa, alla storia degli uomini, a quello che ne rimane e a quello che di essa vive ancora in noi.