Pianura Padana. Verso il Delta del Po. Attraverso i pensieri.
Nella nebbia gocce sospese come i pensieri.
Antonio Giannini
Quando il paesaggio suggerisce i sentimenti
è strano l’effetto che procura la nebbia quando, all’improvviso, una mattina qualunque d’autunno ti scopri immerso nella sua massa lattiginosa e ti senti sospeso come in un ventre materno. In una zona franca.
Ancora più strano è l’effetto benefico che ha sulla mente l’illusione dell’isolamento, almeno temporaneo, dal mondo esterno. Forse che abbiamo bisogno, di tanto in tanto, di una pausa? Come a dire che siamo trascinati in un vortice quotidiano che consuma il nostro tempo, e questa breve sospensione ci fa prendere fiato? Ci fa riflettere sulle nostre esistenze? Non lo so. Posso dire solamente che in questi momenti, quando il mondo sembra fermarsi ho come un senso di sollievo.
Quando dalla mia finestra, dove spesso la mattina si apre un quadro nitido di luce e colori, fa capolino la nebbia, il pensiero mi riporta sempre, quasi in modo automatico, a immagini e sensazioni rimaste in un angolo della mente pronti ad emergere come da un sogno incoerente di cui ci sfugge il senso.
Mi vengono in mente le brughiere del nord, quella campagna immensa che all’alba, lentamente, prende forma e colore man mano che la nebbia dirada e una pallida luce prende il sopravvento.
Io di quelle albe ne ho vissute tante quando, nella immensa Pianura Padana, giungevo alla mattina presto col mio autoarticolato 619 FIAT color panna in prossimità di qualche zona industriale di chissà quale città del triangolo industriale italiano.
Ricordo quel leggero stordimento di una notte insonne passata quasi tutta a guidare; quel sapore amaro ed impastato della saliva dopo chissà quante sigarette fumate; l’odore strano e aspro di mangimi e dei fertilizzanti; quel senso di desolazione e solitudine che ti prendeva e quasi rimpiangevi il gran traffico della sera precedente.
Quando però lentamente le cime di un pioppeto o la forma tozza di un casolare, in lontananza, facevano capolino da questo mare di ovatta, capivo che il sole era appena oltre l’orizzonte e che avrebbe, di li a poco, progressivamente, fatto emergere, uno ad uno, i contorni di un paesaggio inverosimile ed affascinante ai miei occhi abituati alla collina, ai muri a secco, alle piccole vie, alle contrade tutte così vicine.
Man mano che il sole prendeva il sopravvento, poi, tutto iniziava a colorarsi di tonalità tenui e composite i cui riflessi, al crescere della luce diretta, in corrispondeva della linea dell’orizzonte, sfumavano in tonalità tra il rosa e l’indaco sulla massa grigia del terreno segnato monotonamente da infiniti solchi paralleli.
Il volo improvviso spiccato da terra da un uccello solitario dalle grandi ali, alla ricerca di chissà quale approdo, mi segnalava la presenza di vita in quel paesaggio fisso e surreale e mi riportava alla realtà.
Se sulle prime questo scenario aveva su di me l’effetto un po’ inquietante, poi, come per magia, progressivamente, mi procurava una strana fascinazione e, quando più tardi il paesaggio diventava più nitido, quasi rimpiangevo quella sensazione di mistero che si andava dissolvendo.
Di solito arrivavo prima dell’ora di apertura davanti ai cancelli della fabbrica dove era destinata la merce che trasportavo e, nell’attesa, il silenzio e un senso di sospensione tutto intorno veniva bruscamente rotto dall’arrivo baldanzoso, prima alla spicciolata e poi in gruppi consistenti, degli operai. E tutto era un animarsi, un parlottare in un dialetto incomprensibile, interrotto da frequenti scoppi di risa. Il vapore emesso dai loro corpi caldi e dal fitto parlare, che nell’insieme ed in controluce sembrava lo sbuffo di un treno in movimento, segnalava che lì fuori, malgrado la giornata di sole, faceva freddo.
Si vedeva che loro erano ben riposati e che iniziavano la giornata pieni di nuova energia. Io invece, chiudevo gli occhi in uno stato di dormiveglia, finché qualcuno non veniva a bussare alla mia portiera.
Erano gli anni settanta e quell’apparente armonia, in sintonia con l’ambiente circostante, aveva il sapore di una tregua dalle turbolenze e violenze che la società stava vivendo.
Quando la mia destinazione finale si spingeva a nord est verso il veneto, nei pressi del Delta del Po, quei paesaggi così vasti e dall’apparente monotonia, lentamente si arricchivano della presenza dei corsi d’acqua e dei canali formati dal fiume prima di fluire in mare. E lì, quando le circostanze me lo hanno permesso, ho potuto scoprire l’altra faccia della pianura.
Immergendomi in quell’ambiente così speciale, ho potuto scoprire il delicato equilibrio tra terra e mare creato dal fiume e difeso dall’uomo.
Al paesaggio dagli spazi vasti ed alieni dell’entroterra subentrava adesso un alternarsi di aree agricole, dune fossili, fiumi e golene, pinete e boschi, lagune e canneti. Il paesaggio intorno diventava più piccolo e a portata di mano. Il frullio di ali nel canneto o il gracidare cadenzato nello stagno, la presenza immobile e solitaria di un pescatore, teso all’ascolto di eventuali vibrazioni della canna; tutto questo riportava il mio spirito in una dimensione decisamente familiare e rassicurante.
Ma il ricordo di quelle visioni fantastiche dell’alba padana pur nella loro indeterminatezza continuavano ad esercitare su di me un certo richiamo, come l’attrazione di qualcosa di inedito fuori della mia portata, su cui avrei voluto soffermarmi di più per decifrarne a pieno il mistero.
E mi chiedevo se avrei vissuto ancora quei momenti magici. E, siccome ero giovane, riponevo molta fiducia in quella eventualità.
Quella sensazione avventurosa così intensa, piena, dove l’esito era, o mi appariva, quasi sempre incerto, nella mia vita l’ho provata poche altre volte.
Lo scotto da pagare era che per poter partire dovevi provvedere al carico del mezzo e questo comportava ore ed ore trascorse nel centro siderurgico di Taranto.
Era come entrare in un girone dantesco e le varie operazioni, da quelle burocratiche a quelle operative della pesatura e del carico, portavano via alcune ore e se ti imbattevi in un cambio di turno, poteva andar via tutta la notte.
Lo spettacolo notturno che ti si presentava di questa immensa città notturna che era il siderurgico era forte ed estraniante e ti sentivi come in un mondo fantascientifico del sottosuolo.
Di notte, con tutte quelle luci colorate, che davano forma alle strutture ed agli impianti metallici di forme così diverse da produrre un’immagine complessiva di un macchinario come un orologio automatico che è mosso da una forza misteriosa che è al suo interno e i fumi grigi che , illuminati anch’essi, salivano su per le ciminiere degli alti forni, davano a questa forza interna, un connotato vitale come di un animale preistorico che sbuffa dolente e brontola tra i miasmi acri e dolciastri del suo stesso alito mortifero. Avessi avuto allora la passione che ho adesso della fotografia, sarebbe stato un soggetto incredibilmente attraente.
Immagino scatti notturni tra luci verdi rosse e gialle che illuminavano queste forme enigmatiche inframmezzate da questi fumi grigio chiari che fuoruscivano da ciminiere altissime contro lo sfondo nero del cielo notturno che ti facevano pensare ai baluardi di una città medioevale con gli stendardi al vento.
Soltanto all’alba, su per la collina, al ritorno verso casa, avevo sempre la sensazione di ave lasciato alle mie spalle una città sotterranea e misteriosa dove i suoi sparuti e silenziosi abitanti trafficano lenti e dimentichi del mondo di fuori.
Di notte, con quelle luci gialle che davano forma agli impianti ed alle strutture metalliche produceva un’immagine complessiva di un grande animale sbuffante, dalle interiora impegnate, senza soluzione di continuità, in un metabolismo necessario per la produzione di un bene irrinunciabile delle nostre esistenze come l’acciaio.