I Conservatori leccesi
Dal Conservatorio di San Sebastiano a quello di Sant’Anna viaggio nella storia di Lecce passando per gli Istituti d’assistenza per le donne
Sara Foti Sciavaliere
I Conservatori presenti a Lecce, e se ne contava tre, non vanno intesi con l’accezioni con cui conosciamo oggi questi luoghi ossia come Istituti per l’Alta Formazione Musicale, ma per come era concepiti alle loro origini: di fatto, il termine conservatorio deriva dall’usanza, diffusasi nel XIV e XV secolo presso gli asili, ospizi e orfanotrofi di pubblica pietà, di iniziare ed educare a un mestiere (e fra questi quello della musica), in tal modo gli orfani e i trovatelli venivano preservati, “conservati”, cioè si intendeva tenerli lontani dai pericoli della strada; in seguito assumeranno la funzione primaria di insegnamento della musica. I conservatori leccesi hanno tuttavia un’assoluta particolarità poiché si rivolgevano esclusivamente a un’utenza – per dirla in termini odierni – femminile. Si tratta dei Conservatori di San Sebastiano, o delle Pentite, del Conservatorio di San Leonardo e quello di Sant’Anna, o delle “malmaritate”.
Incominciamo la nostra esplorazioni di queste realtà, non più attive ma almeno per due casi ancora visibili nelle loro architetture, a partire dal più antico per fondazione. Ci troviamo in vico dei Sotterranei, una piccola strada – alle spalle di Piazza Duomo e su cui affaccia uno degli ingressi laterali della Cattedrale – che prende il nome dalle numerose stratificazioni che negli anni sono venute alla luce, per esempio un pavimento musivo di epoca romana. Su questa via, a guardare un fianco del Duomo, ci sono la cinquecentesca Chiesa di San Sebastiano e il Conservatorio delle Pentite. Quest’ultimo era un ricovero in cui le suore Cappuccine avevano il compito di accogliere le donne dalla vita dissoluta che, nella solitudine monastica e nella preghiera, dovevano riaccostarsi a Dio. Una struttura che patì non poche criticità: alcune lettere inviate dalle monache ai familiari e alle autorità testimoniano le vite difficili di donne soggette a regole ferree e cui veniva proibito di avere contatti con l’esterno, anche nel momento dell’eucarestia (tant’è che è presente un comunichino nell’area destinata alla liturgia eucaristica, in modo tale da concedere l’ostia consacrata, senza che donne presenziassero in chiesa); inoltre le monache dovevano provvedere per proprio conto a molte esigenze materiali, perché le poche donazioni dei facoltosi non bastavano a coprire tutti i bisogni della comunità e pertanto le assistite lavoravano per l’esterno, realizzando ventagli e tessuti.
Le pareti, che vediamo oggi, degli ambienti dell’ex Conservatorio in vico dei Sotterranei sono frutto di interventi recenti e non presentano nulla di particolare, mentre la chiesa che l’affianca, mostra un portone cinquecentesco in legno con ante decorate a motivi lacunari ed esagoni. La facciata si presenta lineare a capanna, ricordando gli edifici romanici; in alto al prospetto è visibile una formella che reca l’immagine del Volto di Cristo rappresentante la devozione a questa dell’ordine monastico del Conservatorio. La struttura architettonica dell’edificio religioso, nel suo complesso richiama quella semplicità che rispecchiava l’ideale di povertà dell’ordine, l’osservanza della povertà per le Cappuccine di San Sebastiano doveva essere particolarmente rigorosa, non solo perché i Cappuccini, tra le famiglie Francescane, sono quelli che con maggiore rigore hanno seguito l’ideale di una vita semplice e devota, ma soprattutto per essere questo Conservatorio, per sua stessa definizione, luogo di penitenza, ospitante una comunità che si affidava alla carità pubblica.
L’ambiente interno della chiesa di San Sebastiano è a un’unica navata e in origine presentava una lineare copertura in legno, esclusa la parte al di sopra dell’altare maggiore, che è una volta di pietra. La chiesa rimane sostanzialmente spoglia anche quando in città arriverà a diffondersi la moda delle decorazioni barocche. E quei affreschi ancora leggibili hanno un carattere devozionale, e con tutta probabilità fatte da maestranze dell’Ordine stesso, cosa di consuetudine nelle chiese e nei monasteri francescani, anche se poco e niente si conosce sull’intervento decorativo dei religiosi nelle dimore di comunità femminili.
Secondo alcuni documenti che trattano di una ricognizione effettuata dal vescovo Pignatelli, nel 1692, sono riportati sette altari: tra di essi compare quello intitolato a San Nicola Magno (oggi non più esistente), devozione insolita per una chiesa cappuccina ma significativa in un Conservatorio, perché questo santo è considerato il protettore dei giovani in difficoltà, o meglio delle giovani, se si pensa, secondo leggenda, che il vescovo Nicola fece dei doni a tre giovinette che il padre, in povertà, voleva avviare alla prostituzione e che grazie alla dote ottenuta dal generoso benefattore sarebbero potute andare in sposa. Di indubbia devozione francescana invece è la pittura murale che occupa la seconda arcata destra della navata raffigurante “S. Antonio, S. Francesco e la Vergine”; quest’immagine corrisponderebbe, con tutta probabilità, all’altare della Madonna degli Angeli o Madonna del Carmelo così identificata dagli stessi documenti: la figura della Vergine, anche se poco leggibile, presenta delle similitudini con l’immagine mariana rappresentata sul pilastro sinistro su cui si imposta l’arco trionfale, in entrambe le pitture si può notare una tipologia mariana ricorrente nelle chiese di Terra d’Otranto, riconducibile alla Vergine di Costantinopoli, alla cui devozione alla Madonna di Costantinopoli si legavano a Lecce gli Agostiniani e ciò potrebbe confermare l’ipotesi che prima delle Cappuccine, qui a San Sebastiano ci fossero le Agostiniane.
La devozione all’umana sofferenza di Cristo è rappresentata invece dall’affresco della Pietà, che si trova nella terza arcata a sinistra della navata e per il quale, durante il suo restauro promosso da Luciana Palmieri, si è giunti alla conclusione che tale pittura, opera di un frescante locale, sia stata ispirata da una stampa di un disegno di Michelangelo che era stato eseguito per la marchesa di Pescara, Vittoria Colonna, negli ultimi anni della vita del maestro. Anche in questo caso il nesso tra la pittura e la funzione di rifugio del Conservatorio di San Sebastiano trova una sua logica, poiché la marchesa soggiornando per un lungo periodo a Napoli rimase colpita dalla spiritualità di Maria Lorenza Longo, la quale si dedicò in favore degli ultimi, in particolare alla condizione femminile del periodo all’interno del napoletano Ospedale degli Incurabili , con grande attenzione per le madri nubili, considerate forse per le prima volta non come peccatrici da emarginare, ma come soggetti deboli cui la società aveva il dovere di prestare assistenza. Il contatto con gli ambienti più degradati, pone la Longo in relazione con lo squallido mondo della prostituzione, operando sul lavoro complesso di far strappare le donne al vizio e al peccato e di riscattarle dalla soggezione e dalla schiavitù ed è così che nascerà a Napoli il Ricovero delle Pentite, un’istituzione dalla quale prenderà esempio il Conservatorio San Sebastiano di Lecce; inoltre da non dimenticare che proprio Maria Lorenza Longo fu la fondatrice dell’ordine delle Clarisse Cappuccine, impegnate in attività assistenziali e caritatevoli.
Ritornando all’affresco della Pietà in San Sebastiano, si conosce il nome del committente, Leonardo Casavecchia, al quale è riconducibile, sempre per committenza, l’altare della Maddalena, non più visibile oggi perché smantellato sul finire del XVII secolo, per dare spazio alla porta della nuova sacrestia. Dei due affreschi, pare pertinenti all’altare della Maddalena, altra devozione che rimanda ai conventi delle agostiniane, quello più leggibile è l’“Imago Pietatis”, dove ai piedi del Cristo sono raffigurate delle figure femminili inginocchiate e oranti: le religiose indossano il saio grigio legato in vita da una cintura, provvisto di cappuccio e di un soggolo bianco, però l’abito delle penitenti non offre chiare indicazioni sull’Ordine di appartenenza, sia per il degrado della pittura che per la genericità dell’abbigliamento religioso nei secoli passati ponendo il dubbio di riconoscimento tra le Penitenti francescane e le Bizzoche agostiniane. Presso l’affresco raffigurante l’Imago Pietatis, sull’altra faccia dello stesso pilastro, malgrado vaste lacune, è riconoscibile una figura femminile nimbata, con indosso un mantello che copre il saio legato in vita da un cordone impugnando un bastone in atto di minaccia; in basso, a destra si nota una figurina di donna inginocchiata che stringe nelle mani un rosario, rimandando nelle fattezze alle suorine dell’Imago Pietatis. Nonostante il danneggiamento della scena, è evidente il rimando all’iconografia della Vergine del Soccorso, devozione diffusasi tramite l’Ordine Agostiniano, dando ancora ulteriore conferma alla precedente presenza dell’Ordine femminile in questo luogo. L’iconografia della Madonna del Soccorso e i miracoli a lei attribuiti si richiamano alla protezione dei fanciulli nei confronti del Demonio e ritornando alla pittura presente nella chiesa al particolare della figura femminile in ginocchio è, inoltre, un chiaro esempio di pentimento da parte di una donna che si è macchiata di una grave colpa. Da ciò appare ovvio, quindi, la funzione del Conservatorio come rifugio a cui accedevano spesso ragazze in giovane età, “minacciate dal Male”.
Nella zona presbiteriale, sul lato destro addossato alla parete, è posizionato l’unico arredo superstite: un altarino con funzione di comunichino. Esso si presenta con ampio basamento sul quale poggiano due colonne scanalate con capitelli che sorreggono l’architrave ornata da piccole teste di angeli alati che custodiscono il calice eucaristico. La semicupola sottostante è decorata a “squame”, implicito simbolismo cristologico, mentre all’interno (oggi murato) erano impostate due porticine lignee che servivano per mettere in comunicazione la chiesa con il conservatorio, aprendole solo durante la liturgia a tutela della clausura delle suore e delle pentite nel convento.
In base ad atti notarili o da testimonianze indirette emerge che, sin dal principio, il Monastero delle Convertite si rivolgesse quasi esclusivamente a donne in età giovanile e che si dubitasse della buona fede di donne che, raggiunti limiti d’età o per scarsa avvenenza, non fossero più in grado di esercitare il “mestiere” cercando un comodo rifugio. Le Cappuccine, con il rigore del loro esempio, costituivano un modello di riferimento morale per le peccatrici pentite, a cui era destinata l’iniziativa di carità, e le giovani erano tenute a pronunciare i voti annuali, detti voti del Terz’Ordine, destinati ai laici, che non comportavano la clausura e permettevano la possibilità di reinserimento nella società, inoltre c’era un’uniformità nell’abito e nelle regole di comportamento.
Il lento degrado di questo luogo, inizia intorno alla metà del XIX secolo, quando i beni di San Sebastiano vengono confiscati dallo Stato unitario generandone il collasso economico, la situazione va rapidamente precipitando e la cronaca del periodo registra episodi di ribellione da parte delle ospiti del Conservatorio irrispettose della disciplina, per passare a una gestione laica fino alla chiusura definitiva.
All’istituzione di San Sebastiano segue, nella città, la fondazione di altre strutture con il meesimo scopo assistenziale ma rivolto a un altro tipo di utenza, ne sono l’esempio il Conservatorio di San Leonardo e il Conservatorio di Sant’Anna. Nel Conservatorio di San Leonardo, fondato nel 1610, venivano accolte le orfane di civile condizione, mentre ancora più tardo è il Conservatorio di Sant’Anna, che risale al 1682, costruito per iniziativa di Teresa Paladini, vedova di Bernardino Verardi, il cui operato era rivolto all’accoglienza di donne aristocratiche che si trovavano nella condizione vedovile o per sfuggire a matrimoni di nobile lignaggio sbagliati, altra differenza dalle altre due fondazioni è che quest’ultima istituzione godeva di un’autonomia economica grazie alle donazioni di beni consistenti gestiti dai membri della stessa famiglia Paladini. Il Conservatorio di San Leonardo, invece, come il San Sebastiano, era un’opera di carità, che riceveva una forte influenza decisionale da parte dei Sindaci della città. La permanenza delle “conservande” era, in linea di massima, temporanea: fino al matrimonio, al rientro nella famiglia d’origine o all’accettazione di un’altra conveniente sistemazione. In assenza di alternative non era raro, tuttavia, che le donne si fermassero nell’istituto per il resto della loro esistenza, accettando di condurre vita comune secondo il modello monastico ma senza l’obbligo di professione dei voti. Insomma, come era prassi in Italia e in Europa a partire dal XVI secolo, i conservatori leccesi vanno incontro ai bisogni concreti posti dalle povertà femminili, uniti alla tutela morale assicurata dalla vita ritirata in comunità.
Il 7 dicembre 1679 fu reso pubblico il testamento del nobile leccese Bernardino Verardi – che di Lecce era stato anche Sindaco –, col quale nomina erede universale del suo ingente patrimonio la moglie, la nobildonna Teresa Paladini, con l’“obbligo” di fondare un conservatorio e lasciando a lei la facoltà di dettarne le regole di funzionamento. Da quel momento in avanti il Conservatorio sarà il grande impegno della nobile Teresa, che nel creare il suo conservatorio si muove ispirandosi a esperienze realizzate a Napoli, per alleviare altre sofferenze femminili, infatti il conservatorio Sant’Anna fu un ritiro destinato a ospitare gratuitamente “vergini, vedove o malmaritate” di famiglia nobile e di nascita leccese. La scelta è, lei vivente, discrezionalmente operata dalla stessa Teresa Paladini, anche se con un atto notarile in seguito avrà premura di specificare le casate beneficiarie: Paladini, Cicala, Afflitti, Ventura, Prato, Carducci, Corso, Guarino, Erriquez, Maramonte, Scaglione. Compatibilmente con gli spazi disponibili, era comunque possibile ospitare anche nobildonne appartenenti a casate non indicate, ma a proprie spese.
Il conservatorio Sant’Anna sarà attivo per oltre due secoli e negli anni Trenta del Novecento saranno ormai evidenti i segni della perdita di consistenza delle ragioni storico-sociali alla base dell’esistenza dell’istituto. Inaugurati i lavori nel 1686, ove sorgeva il palazzo Verardi, il Conservatorio, costruito al pari dell’adiacente chiesa di S. Anna da Giuseppe Zimbalo, nel 1764 venne restaurato da Emanuele Manieri, per volontà del vescovo Alfonso Sozy-Carafa. La struttura venne ingrandita e il breve prospetto, arretrato in una corte fiancheggiata da muri dell’omonima chiesa e del palazzo De Simone, fu riccamente ornato. Per la chiesa, Zimbalo elaborò una facciata due ordini animata da statue senza volute di raccordo e con timpani triangolari, sull’esempio di quella della cattedrale che aveva costruito quindici anni prima, e coprendo l’unica navata rettangolare con un soffitto piano rivestito di legno con gli stemmi angolari delle famiglie nobili alle cui donne era accordato il privilegio dell’ingresso nel Conservatorio. Gli scudi araldici si ripetono anche sulle quattro colonne dell’altare maggiore. E ai lati dello stesso altare sono poste le targhe epigrafiche dei due fondatori dei luoghi pii, Bernardino Verardi e Teresa Paladini sormontati dai rispettivi ritratti, nei quali Teresa pare guardare verso il consorte ritratto nella posa di primo cittadino di Lecce.
Nel panorama degli istituti pii della città e della provincia, il conservatorio Sant’Anna si posecostituì quale risorsa fuori dagli standard ponendosi a disposizione delle donne del patriziato locale a cui si offriva non come soccorso materiale a cui ricorrere in momenti di difficoltà economica, quanto piuttosto come presidio morale, come luogo di sosta in un passaggio complicato della propria vita. Particolarmente interessante infatti è il riferimento alle donne “malmaritate”: è noto che in un contesto aristocratico – dove era norma che le unioni matrimoniali fossero decise dalla famiglia e non dai soggetti coinvolti, più simili a dei contratti d’affare tra i casati – potesse accadere, soprattutto in assenza di prole, che i coniugi faticassero a dare senso a una convivenza rivelatasi tanto penosa da divenire insopportabile. Ne è stato un esempio Isabella Castriota Scanderberg, nobile letterata del ‘700.
L’idea percorsa dal Conservatorio è quella di creare uno spazio femminile convenientemente protetto e confortevole, assai simile a quello di una residenza signorile. Teresa Paladini fa dunque edificare un posto che, per la sontuosità dei fregi e per la ricercatezza degli arredi, ricalcasse la ricchezza degli ambienti domestici di provenienza delle ospiti e dove sarebbe stato possibile per loro, ciascuna all’interno dei propri quartini, ossia un piccolo appartamento che permettesse di conservare i propri agi di vita, ma anche entrare in confidenza con donne del proprio rango, prendersi cura di sé avendo la possibilità di applicarsi alle occupazioni che più erano di loro gradimento: certamente pregare e praticare le “arti donnesche”, ma anche, a seconda dell’età e delle inclinazioni, istruirsi nel leggere e nello scrivere, esercitare la musica e il canto, e magari apprendere nuovi saperi.