Andy Warhol. La pubblicità della forma
Dal 22 ottobre al 26 marzo 2023 la Fabbrica del Vapore a Milano ospita la mostra dedicata al protagonista della pop art americana curata da Achille Bonito Oliva con Edoardo Falcioni. Intanto a Padova dal 29 settembre la mostra Andy Warhol: icona pop, visitabile fino al 29 gennaio 2023
Ogni cosa ripete se stessa. È stupefacente che tutti siano convinti che ogni cosa sia nuova, quando in realtà altro non è se non una ripetizione.
Andy Warhol
La citazione di Andy Wharol sembra suonare più che mai veritiera e inconfutabile. Tutto sembra essere destinato a ripetersi contro ogni logica. Da mesi assistiamo ad un irragionevole conflitto – perché le guerre non sono mai ragionevoli – e gli eventi del passato non sembrano scalfire la memoria che nel nostro paese come pure nella stessa Europa sembra essere sintonizzata sul breve termine. E auspicando un cambio di rotta – lo stesso pianeta con i cambiamenti climatici in atto e gli eventi avversi che ne conseguono sta lanciando moniti ahimè inascoltati – ci apprestiamo a raccontarvi della mostra Andy Warhol. La pubblicità della forma con oltre trecento opere che sarà allestita dal 22 ottobre 2022 sino al 26 marzo 2023 a Milano nella Fabbrica del Vapore.
Articolata in sette aree tematiche e tredici sezioni, l’evento espositivo sarà una vera e propria immersione nella produzione artistica di Wharol, dagli inizi negli anni Cinquanta come illustratore commerciale sino all’ultimo decennio di attività negli anni Ottanta connotato dal rapporto con il sacro.
Curata da Achille Bonito Oliva con Edoardo Falcioni per Art Motors la mostra sarà allestita nelle sale della Fabbrica del Vapore dove troveranno posto dagli oggetti simboli del consumismo di massa, ai ritratti dello star system degli anni ’60; dalla serie Ladies & Gentlemen degli anni ’70 dedicata alle drag queen, i travestiti, simbolo di emarginazione per eccellenza e considerati alla pari di star come Marilyn, sino agli anni ’80 in cui diviene predominante il rapporto col sacro: cattolico praticante, ne era stato in realtà pervaso per tutta la vita.
Esposte una ventina di tele, una cinquantina di opere uniche come serigrafie su seta, cotone, carta, oltre a disegni, fotografie, dischi originali, T-shirt, il computer Commodore Amiga 2000 con le sue illustrazioni digitali, la BMW Art Car dipinta da Warhol, la ricostruzione fedele della prima Factory e una parte multimediale con proiezioni di film da vedere con gli occhialini tridimensionali. Un percorso affascinante per riscoprire un artista ancor oggi attualissimo e amato da un pubblico trasversale. Le sue icone, i personaggi, i suoi soggetti sono riprodotti ovunque, in tutto il mondo, su vestiti, matite, posters, piatti, zaini.
Un rivoluzionario della cultura dell’immagine. Ha anticipato i social network e la globalizzazione degli anni Duemila, ha cambiato per sempre la storia dell’arte.
“Warhol – afferma Bonito Oliva – è il Raffaello della società di massa americana che dà superficie ad ogni profondità dell’immagine rendendola in tal modo immediatamente fruibile, pronta al consumo come ogni prodotto che affolla il nostro vivere quotidiano. In tal modo sviluppa un’inedita classicità nella sua trasformazione estetica. Così la pubblicità della forma crea l’epifania, cioè l’apparizione, dell’immagine”.
Quasi in contemporanea, è stata inaugurata al Centro Culturale Altinate/San Gaetano, (via Altinate, 71) a Padova il 29 settembre la mostra Andy Warhol: icona pop, visitabile fino al 29 gennaio 2023. Curata da Simona Occioni in collaborazione con l’Assessorato alla cultura del Comune di Padova e la Fondazione Mazzoleni. Il percorso espositivo a cura di Daniel Buso ed Elena Zannoni presenta 150 opere tra disegni, foto, incisioni, sculture e serigrafie. Eventi che confermano, se mai ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione a 35 anni dalla morte, verso Andy Warhol l’artista che ha trasformato in arte gli oggetti di vita quotidiana e che ha saputo rinnovare la storia dell’arte del Novecento, cimentandosi in diversi ambiti quali moda, musica e imprenditoria.
Nato a Pittsburgh nel 1928, Andrew Warhola, dopo la laurea nel 1949 si trasferisce a New York, trasforma il proprio nome di origine slovacca in Warhol e nei primi anni ’60 è un giovane pubblicitario di successo, che lavora per riviste come New Yorker, Vogue e Glamour. L’intuizione che lo renderà celebre e ricco è quella di ripetere una immagine più e più volte, in modo da farla entrare per sempre nella mente del pubblico. Thirty Are Better Than One, la sua prima Monna Lisa ripetuta ben trenta volte, da celebre ed esclusiva opera d’arte, viene trasformata in una opera di tutti e per tutti, trasformando il linguaggio della pubblicità in arte. In Green Coca-Cola Bottles – scrive Falcioni nel suo testo per il catalogo – comprendiamo immediatamente che per l’artista è proprio la quantità a prevalere sull’originalità del soggetto raffigurato: è infatti ripetendo la stessa immagine che egli riesce a portare e mettere in scena il panorama consumistico nel mondo dell’arte: compito dell’artista non è più creare, ma riprodurre”. E la riproduzione avviene attraverso una speciale tecnica di serializzazione, con l’ausilio di un impianto serigrafico, che facilita la realizzazione delle opere e riduce notevolmente i tempi di produzione. La realizzazione seriale della stessa immagine, tratta dalla pubblicità o dalla cronaca, su grandi tele in versioni diverse giocando con l’alterazione dei colori svuota il significato originario e condensa il pensiero che l’arte deve essere consumata come qualsiasi altro prodotto. Nel 1962 con la tecnica serigrafica realizza la serie Campbell’s Soup Cans, composta da trentadue piccole tele di identiche dimensioni raffiguranti ciascuna gli iconici barattoli di zuppa Campbell’s, esposte nello stesso anno alla Ferus Gallery di Los Angeles.
Lo stesso fa con i ritratti delle celebrità dell’epoca: Marilyn Monroe, Mao Zedong, Che Guevara, Michael Jackson, Elvis Presley, Elizabeth Taylor, Brigitte Bardot, Marlon Brando, Liza Minnelli, Gianni e Marella Agnelli, le regine Elisabetta II del Regno Unito, Margherita II di Danimarca, Beatrice dei Paesi Bassi, l’imperatrice iraniana Farah Pahlavi, la principessa di Monaco Grace Kelly, la principessa del Galles Diana Spencer. Per queste personalità essere ritratte da Warhol diventa un imperativo a conferma del proprio status sociale. Emblematica la Gold Marilyn Monroe, conservata al MoMA di New York: una delle donne più affascinanti della storia moderna americana viene qui rappresentata su uno sfondo oro, esattamente come si trattasse di una tavola del Trecento raffigurante la Madonna.
La critica però è ostile, considera i suoi lavori un oltraggio all’Espressionismo Astratto, allora dominante negli USA e non comprende l’originalità né il desiderio di Warhol di comunicare l’idea della ripetizione e dell’abbondanza del prodotto, in linea con la filosofia consumistica dell’epoca.
«Il vero colpo di genio attraverso cui l’artista riuscì a valorizzare definitivamente gli anni ’60 e le nuove forme di comunicazione di massa – leggiamo ancora nel testo di Falcioni – furono però le Brillo Box: si tratta di sculture identiche alle scatole di pagliette saponate Brillo in vendita nei supermercati. Queste vennero realizzate da una falegnameria e i bordi vennero serigrafati da Warhol e i suoi assistenti come le etichette originali. Saranno proprio queste opere a far scaturire in Arthur Danto, celebre filosofo ammaliato da queste creazioni, la sua concezione sulla filosofia dell’arte, che ruota attorno ad una domanda fondamentale: “che cos’è l’arte?”. Questo interrogativo lo porterà a ritenere queste scatole di legno delle vere e proprie opere d’arte, in forza della loro capacità di evocare e rappresentare alla perfezione un determinato contesto storico, in questo caso gli anni ‘60 assieme alle sue innumerevoli novità, di cui il pop artist può essere considerato senza dubbio il massimo interprete. L’evento che rese queste opere tra le più celebri dell’intera storia dell’arte fu la personale dell’artista presso la Stable Gallery di New York, tenutasi nel 1964: queste sculture furono disposte all’interno dello spazio espositivo tutte in fila e una sopra all’altra, proprio come se si trattasse di un supermercato piuttosto che di una galleria d’arte». Quando Leo Castelli visitò la mostra comprese l’originalità di Warhol e ricredendosi lo arruolò nella sua scuderia. Iniziò l’ascesa e Warhol concepì The Factory, originariamente al 231 East 47th Street, una vera e propria fabbrica delle idee dove innumerevoli assistenti creavano a ritmo frenetico le sue opere in serie: quadri, film, cover musicali, sculture, copertine di riviste e molto altro. Nella Factory Warhol accoglie attori, musicisti, scrittori, tutto il mondo creativo newyorchese, creando i primi film come i The Velvet Uderground & Nico, per cui realizza anche la copertina del celebre LP. Nella Factory viene realizzato inoltre il magazine Interview con in copertina, per ciascun numero, il personaggio del momento. E sono prodotte altre celebri copertine per Time e Playboy. Molte altre Factory seguiranno in diverse parti della città, laboratori dei tantissimi progetti ideati senza sosta dal poliedrico artista che accoglie nella Factory la nuova generazione di artisti quali Basquiat, Haring, Scharf. Le ultime sperimentazioni iconiche come il celeberrimo Dollar Sign, emblema del rampantismo economico di quegli anni, vedono Warhol abbandonare l’uso della serigrafia per dedicarsi alla pittura pura, reinterpretando in chiave pop alcuni riferimenti artistici del passato. Un mese prima di morire a New York il 22 febbraio 1987 per gli esiti di un intervento chirurgico alla cistifellea, aveva presentato a Milano, Last Supper, ispirato all’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e realizzato su commissione del gallerista Alexandre Iolas. Il critico Robert Rosemblum scriverà «Se le labbra di Marilyn o un barattolo di zuppa possono diventare le icone di una nuova religione, Warhol non ha mai come in Last Supper glorificato così tanto il culto delle immagini, sua grande, unica e originaria passione.»