TARANTO con gli occhi dei bambini tra mito e realtà

Girovagando tra suggestioni letterarie e storie di mare

Antonio Giannini

“Oggi mi sento greco”. Così diceva mio padre quando sceglieva il passaggio da Taranto, in alternativa alla strada interna che ci conduceva all’allora borgo silenzioso di Porto Cesareo sullo Ionio, per trascorrere le vacanze estive.
Ed uno di noi altri ragazzini accucciati sul sedile posteriore della bianca e lucente Lancia , che profumava ancora di nuovo, chiese il significato di quelle parole.


Mio padre non aspettava altro ed in un impeto di classicheggiante nostalgia ci parlava della Magna Grecia, della colonizzazione di molti posti del meridione e della unica colonia Spartana, quella di Taras appunto, il piccolo isolotto posto tra due mari.
Quelle storie raccontate con tanta partecipazione ci coinvolgeva al punto, che l’attraversamento di della città si prospettava come un momento solenne ed indimenticabile.
L’Aspettativa cresceva alquanto già dal curvone in alto prima di scendere dalla Murgia, dove si apriva alla nostra vista, meravigliosa, la pianura divisa a scacchiera dagli appezzamenti coltivati, prima che lo sguardo annegasse nel blu screziato dai riflessi argentei e abbaglianti del mare.
Appena scesi a valle, poi, una esplosione di bouganvillae ed oleandri multicolore ci sembravano come fuochi d’artificio alla festa di San Rocco.
Fiori e file enormi di fichi d’india straripavano dai guad rail, dai muri di tufo e sulle pareti di capannoni e fabbriche scalcinate le quali, nell’avanzare, diventavano sempre più numerose, e alla emozione di quello spettacolo cromatico subentrava lentamente ma inesorabile la delusione.
La sensazione sempre più netta era di avvicinarci al confine di una terra sconosciuta dove vigeva un altro ordine, dove la natura ingaggiava una lotta sempre più aspra con mostri alieni fin quando, passato Massafra, masserie abbandonate e l’Hotel Tritone, la lotta diventava impari e quella vegetazione spettacolare doveva soccombere definitivamente nell’attraversamento di quella terra desolata dell’allora Italsider, Eni e Cementir, passando sotto nastri trasportatori lungo un intrigo di metallo e ciminiere a strisce rosse e bianche dalle quali, senza posa, fuoruscivano braccia fluttuanti e grigie di fumo che sembravano imprecare vendetta al cielo, proprio come nell’eterna lotta tra il bene ed il male delle storie lette a scuola.


Questo viaggio, il primo di una lunga serie, mi ricordo, ci richiamò alla memoria il racconto del Re Leone quando Simba si inoltra nel territorio desolato e spoglio dove Skar gli tende un agguato, e quella associazione non è più andata via dalle nostre menti di ragazzini.
La terra desolata terminava dopo Porta Napoli quando si arrivava al primo ponte che immetteva alla città vecchia, ed il senso di oppressione era finalmente liberato anche grazie alla frotta sciamante di ragazzini, forse della nostra età, in costume da bagno, che dal parapetto, a turno, si tuffavano in mare suscitando in noi allegria ed ammirazione mista ad un filo di invidia.
Prima di prendere il secondo ponte e costeggiare tutta la città nuova verso il Salento, le due colonne se ne stavano li “uniche superstiti di un grande tempio dorico di Poseidone”, diceva mio padre quasi declamando, “a simboleggiare la grandezza delle origini della Città”; e questa unica testimonianza, unita al racconto affascinante dei miti greci, aveva impresso definitivamente le nostre menti come un marchio indelebile.
Il viaggio doveva proseguire e non c’era mai tempo di fermarsi ed inoltrarsi nel centro antico dove chissà quali storie e quanti personaggi attuali si nascondevano. A vederlo da fuori il centro antico, l’isola, sembrava una casba inaccessibile dove entrarci, ci sembrava, sarebbe stato come violare i confini di un territorio abitato da uomini, donne, bambini di un’altra stirpe.
Ma era quello un motivo per cui la città vecchia, appartata e guardinga allo stesso tempo, ci attraeva ed accendeva la nostra fantasia.
Ad una ventina di chilometri più avanti, lungo la strada che costeggiava lo Ionio, c’era una baia con tutt’intorno una cresta di pini ed era bello vedere il bianco della sabbia, il blu del mare e il verde della pineta.
Era Lido Silvana, e ci piaceva allora pensare che il precedente attraversamento di quella zona d’ombra lungo tutto il tratto di statale che fiancheggiava l’Italsider, era il prezzo imposto da Poseidone dio del mare, delle onde, dei terremoti, del vento e delle tempeste oceaniche, per farci accedere in questo paradiso terrestre.
E poi ancora, come in un crescendo che pareva non finisse mai c’era Campo Marino, San Pietro in Bevagna, Torre Lapillo ed in fine la nostra Porto Cesareo di cui allora ignoravamo sarebbe diventata un pezzo importante della nostra vita, quando Edipo avrebbe ceduto finalmente il passo ai sentimenti adolescenziali. Ma quella è un’altra storia.