Andrea Mesini il pilota iperrealista
Intervista all’artista modenese che ha fatto della sua passione per i motori un’arte, così nel suo studio è possibile ammirare iconiche auto da corsa e non solo...
Antonietta Fulvio
Nelle sue tele evidenzia l’eleganza della forma, dettagli di sagome o di particolari riconducibili sempre alle auto che nell’immaginario collettivo sono simbolo di velocità. Inquadrate da diverse prospettive, e nella brillantezza dei colori che restituiscono volumi e curve, consentono al fruitore di avere quasi la percezione di poterle toccare con mano… Nato nella terra dei motori, Andrea Mesini ama ritrarre i suoi miti: Villeneuve, Schumacher e Senna la cui ultima corsa fu proprio a Imola, trent’anni fa. Lo abbiamo sentito telefonicamente a poche ore dal Gp di Imola.
Economista ma con una innata predisposizione per il disegno, Andrea Mesini lei oggi è tra gli artisti iperrealisti che ha scelto come soggetto delle sue tele iconiche auto da corsa e in particolare le monoposto della Formula 1. Ci racconta il suo incontro con la pittura? E come arriva alla scelta dei soggetti simboli di dinamismo e velocità?
«L’amore vero per la pittura dopo una prima conoscenza adolescenziale scolastica in cui mi si consigliava una scuola d’ arte, ma che poi prese tutta altra strada ( Liceo Classico e Laurea in Economia e Commercio), avviene nei primi anni novanta. È un po’ per caso che, volendo arricchire l’ allestimento della sala mostra di caminetti antichi che costituivano la mia attività commerciale, mi vennero in mente le tecniche scolastiche sull’uso dei colori ad olio su tela…»
Quale fu la sua prima tela, lo ricorda?
«Sì, realizzai una veduta del fiume Secchia con un ponte zona Modena (50×70). Quadro banale ma che ricordo costruito con pazienza e difficoltà, tutto da imparare e però già ben impostato nei chiaroscuri dell’acqua che scorre. Saranno alcuni anni, una decina, di opere semplici realizzate tutte ad olio (misure max 80 x100) e soggetti classici di paesaggio e vedute e sui primi anni duemila un trittico di maschere veneziane che ho voluto conservare. Iniziando ad esplorare anche soggetti industriali realizzo alcune viste di ceramiche della mia zona con sbuffi di fumo e vapore che assieme ai cieli arruffati di nuvole mi hanno sempre colpito. Nella sala mostra dopo vari apprezzamenti inizio a vendere qualcosa a prezzi irrisori, ma che comunque portano soddisfazione.
Ma la svolta paradossalmente avviene quando inizio a sperimentare, inizialmente con risultati disastrosi, l’utilizzo di qualsiasi tipo di materiale colorante non solo acquistato ma anche di recupero dalle isole ecologiche e realizzando su telai metallici di grandi dimensioni tele con l’utilizzo di tendoni plastificati pubblicitari di scarto. Creo i primi quadri astratti che mi trasmettono tanto e su cui inconsciamente si trasferiscono tante sensazioni e sentimenti.
È il periodo delle opere ispirate anche dalla musicalità del gruppo rock progressive dei Genesis che tanto amo dai primi anni ’70 assieme alla musica barocca del ‘700. Questo tipo di esercizio pittorico mi insegna un uso più deciso del colore e mi incide molto sulla sicurezza nell’affrontare la tela bianca che è comunque sempre il momento magico di tutto il percorso».
Sono anni di sperimentazioni di nuove tecniche e linguaggi pittorici e sceglie di ritrarre luoghi di archeologia industriale, fabbriche dismesse in cui prevale un particolare uso della luce, molto scenografico. Cosa rappresentano questi luoghi per lei e sono luoghi reali?
«Sì, in questo continuo cercare nuove strade e sensazioni torno ad affrontare il genere figurativo realizzando le prime fabbriche abbandonate, luoghi impregnati di vita vissuta e speranze tramontate. Una malinconia serena che affronto con la sicurezza maggiore acquisita con l’esercizio dell’arte astratta che peraltro continuo a coltivare anche tutt’ora. Si tratta di luoghi reali dove però, accentuando i tagli di luce e avendo sempre grande attenzione alla profondità di ogni opera, ricerco sempre una mia atmosfera».
Ma ritrarre i luoghi dell’archeologia industriale lo porta a creare immagini collegate per certi versi alle case automobilistiche blasonate espressione di un gusto e di uno stile di vita più vicina al sogno, il sogno della velocità…
«Sì, siamo arrivati cosi all’incontro con il mondo delle auto da corsa e in particolare del passato. Premetto che venendo da una terra di motori, da una passione innata per moto ed auto era prima o poi inevitabile. Non a caso ho messo al primo posto le moto, perché sono comunque la mia passione pura avendo iniziato a praticare motocross a dieci anni e avendo gareggiato per altrettanto. Dopo uno stop forzato, ma volendo tornare all’agonismo, l’unica strada in sicurezza, avendo anche una famiglia, era l’automobilismo e l’amore viscerale fin dai sedici anni per la Alpine Renault (auto da corsa vincente degli anni ’70) mi porta con grandi sacrifici a riuscire ad acquistarne una. Inizia cosi anche la mia storia agonistica di gare in circuito e salita che tutt’ora continua e con ottimi risultati».
Possiamo dire che la sua pittura, dunque, è l’incontro di due passioni?
«Esatto, dal 2015 inizio così a coniugare assieme le due passioni, vecchi ambienti industriali e auto da corsa d’epoca e nasce la prima opera ‘Stanguellini Factory’ che ha subito successo. Da lì seguiranno i vari quadri della ‘Scaglietti Factory’ sempre con questa ispirazione e via via ci sarà sempre di più una progressione verso il mondo delle auto da corsa del passato e non solo, auto iconiche e di design, supercar e ypercar, Formula 1 e i suoi miti».
Iperrealismo vuole che tutto parta da una foto. Quanto tempo passa dalla ricerca fotografica all’esecuzione del dipinto? Quali tecniche ama utilizzare?
«Partendo da immagini recuperate un po’ ovunque e scelte con attenzione e ore di ricerca, l’ispirazione è soprattutto sentimento e passione oltre che scenografia. Utilizzando smalti sintetici e ora acrilico con finiture lucide, parto però sempre dalla realizzazione della tela su misura in base al soggetto. Costruire il telaio metallico di grande spessore e applicarvi la tela di lino mi impegnano una giornata in cui mi carico per iniziare l’opera».
Non solo pittura ma anche scultura…
«Lavorare manualmente è fantastico e avendo da sempre giocato in officina con la preparazione e messa a punto delle moto e delle auto da corsa, si è per forza costretti a imparare ad usare utensili ed altro. Questo mi ha permesso di realizzare la mia prima importante scultura: un tributo alla Ferrari 250 GTO costituito dal muso a dimensioni reali della stessa secondo la tecnica dei manichini che usavano i battilastra della mia zona per realizzarne la carrozzeria in alluminio».
Quest’anno si è ricordato il trentennale della scomparsa di Ayrton Senna e a lui ha recentemente dedicato un dipinto ritraendolo in un momento di massima concentrazione, un gesto quasi rituale quando cioè il pilota sta per abbassare la visiera del casco…
«Quando penso ad Ayrton ricordo un pilota puro, ‘Magic’ con un carattere determinato, vincente con una vena di malinconia che veniva forse dalla sua estrema religiosità, dalla sensibilità unica di un uomo che correva per vincere e per cui ‘sognare era necessario anche se nel sogno va intravista la realtà’. A lui ho dedicato il dipinto in cui all’ interno della vettura ci si ritrova soli con se stessi in quel momento strano e magico prima della partenza.
Una pausa della vita, un tempo fermo che nel mio piccolo ho vissuto in prima persona partecipando io stesso alle gare».
Tra i suoi ritratti c’è anche un altro pilota entrato nella leggenda pur non avendo mai vinto un titolo mondiale…l’aviatore Gilles Henri Villeneuve anche lui strappato alla vita nel mese di maggio come Senna…
«Gilles ha un grande posto e lo ricordo in prova nella pista di Fiorano a pochi km da casa. Le sue gesta agonistiche anche incomprensibili a volte per un pilota sono certamente mitiche».
E poi il campione che ha portato cinque titoli mondiali a Maranello: il mitico Michael Schumacher… una scelta dal sapore anche un po’ nostalgico…
«Schumacher, a volte un po’ dimenticato, è stato per me colui che ha saputo utilizzare al meglio ogni aspetto di un pilota: coraggio, tecnica, raziocinio e talento, tanto talento».
Il mondo della Formula uno è quasi un fatto genetico per chi è nato a pochi chilometri da Maranello…, pensando ai GP di oggi quale pilota sente di poter ritrarre?
«Respiro l’aria di Maranello, sono nato a dieci km da essa, a Montardoncino, sulle strade dove allora e anche oggi la Ferrari provava le sue auto. Sono un ragazzo degli anni ’80 e le auto da corsa come quelle che uso anche io, non avevano nulla di elettronico, il pilota era in contatto box solo tramite segnalazioni su un cartello, si partiva e vinceva il pilota con la sua macchina, esattamente come si corre oggi con le auto storiche. Sarò nostalgico, ma i piloti di Formula 1 sono oggi costretti a tutt’altro e non è un mondo che mi appartiene. Non ho molto da scegliere tra i piloti che mi sembrano obbligati a un videogioco».
A quale progetto sta lavorando attualmente? Cosa c’è ritratto sulla tela che ha sul cavalletto in questo momento?
«Sto attualmente ultimando uno scorcio posteriore di Porsche 930 da corsa ma non svelo altro, ho tante idee in cantiere e tele sul cavalletto perché sto preparando una mostra dove si potranno scoprire gli esiti della mia ventennale ricerca artistica».