“È rimasto nel cuore del suo pubblico, questa la sua vera vittoria” Intervista a Cielo Pessione Fabrizi, nipote dell’immenso Aldo Fabrizi
A tu per tu con la nipote del grande Aldo Fabrizi, icona di romanità nel mondo: attore, regista, poeta. Il sentito omaggio di Lù Mière calicidicinema ,Premio ideato da Antonio Manzo, che ha voluto dedicare a lui questa edizione alla vigilia del 120 compleanno.
Antonietta Fulvio
L’undicesima edizione di Lù Mière calicidicinema, svoltasi a Sternatia domenica 12 ottobre 2025, ha voluto rendere omaggio ad un artista che ha anticipato il neorealismo e la commedia all’italiana, nato poeta in un borgo della Roma più vera…grazie a Cielo Pessione Fabrizi per l’intervista rilasciata in occasione del Premio dedicato a suo nonno “coscientemente ineguagliabile Aldo Fabrizi”.
Nel luogo in cui è nato il 1 novembre 1905, e quest’anno saranno 120 anni dalla nascita, a Roma in Vicolo delle Grotte c’è una targa che recita:
«Aldo Fabrizi è nato in questa casa qui comincia la lunga strada
che avrebbe percorso quel bambino destinato ad amare le tavole
del palcoscenico quanto le tavole imbandite. Se riuscirete a
fermarvi un momento sentirete ancora nell’aria la sua risata. Aldo è
ancora qui e non se n’è mai andato».
Un privilegio che è concesso solo ai grandi, l’eredità che ha lasciato è inestimabile. Aldo Fabrizi è stato un gigante del teatro, del cinema e della cultura italiana e su di lui c’è ancora tanto da dire e da ricordare…
Sì, veramente ancora tanto da dire, studiare, raccontare e ricordare. Si sa che la storia la scrivono i vincitori e mio nonno, per certi versi, è stato un perdente. Lo è stato nella misura in cui, ancora oggi, si fatica, a inquadrarlo per quello che era, cioè un artista a tutto tondo, prestato a diversi linguaggi (poesia, cinema, teatro, prosa) con una estetica ed una poetica ben precise e un talento enorme nell’utilizzare, per ogni categoria di espressione, gli strumenti specifici. Lo è stato, un perdente, perché in questo mondo decidere di non sgomitare e di non scendere a compromessi non porta gloria, anzi… Però è rimasto nel cuore del suo pubblico e credo che questa sia la sua grande e vera vittoria.

Narratore di storie, interpreti di personaggi che nascevano dalla sua creatività e dall’osservazione, perché Aldo Fabrizi, a differenza di altri comici, si scriveva i testi da solo stabilendo con il pubblico un rapporto speciale e confidenziale perché portava in scena proprio la sua gente quella dei vicoli di Roma di cui è icona assoluta…
Portava in scena i problemi del popolo dal quale proveniva, in fin dei conti dell’essere umano. Nell’ambito dello spettacolo partiva sempre dal testo maturato e scritto dopo lunghe osservazioni del tipo umano che voleva rappresentare. Così i suoi primissimi personaggi erano macchiette di persone vere, conosciute personalmente o cittadini del suo rione o della vecchia Roma.
Lei, Cielo, cura l’Archivio privato di suo nonno, che all’epoca scelse per lei il nome che porta, tornando indietro nel passato qual è il primo e l’ultimo ricordo che ha di lui?
Credo sia sempre difficile mettere a fuoco il primo ricordo, molto più facile ricordare perfino i dettagli dell’ultimo. Se vado indietro nel tempo credo sia il senso di famiglia, i profumi della cucina e l’allegria di ritrovarsi riuniti la domenica, quel dialetto romano sbrigativo ed evocativo. E in tutto quel bailamme nonno, seduto a capotavola, le sue pause, i suoi sguardi, i suoi racconti brevi ma consistenti… Adoravo quando posava gli occhi su di me e quando, più grandicella, lo facevo sorridere per le imitazioni delle cantanti di allora che azzardavo a volte perfino in piedi sul tavolo, rivolta verso di lui, come fosse lo spettatore privilegiato. A dispetto di quanto recita la targa a Vicolo delle Grotte, nonno non sorrideva spesso e ancora più raramente rideva. Ma quando questo accadeva il suo volto diventava dolcissimo, disarmante.
Non è mai facile fare i conti con l’assenza delle persone che amiamo. Alcuni anni fa lei ha scritto “Caro nonno”, uno spettacolo/conferenza itinerante, come è nata l’idea?
L’idea è nata mentre affrontavo l’immensa mole di materiale inedito che costituisce il suo archivio. Nonno era morto solo da un paio di mesi e io iniziai subito la messa in ordine di tutto quello che trovai nella sua grande casa. Mi ci trasferii perfino per poter lavorare senza interruzioni alla catalogazione del suo mondo. Mi accorsi ben presto che Aldo Fabrizi era ancora sconosciuto al grande pubblico e che quello che ci raccontava e che a volte mi lasciava interdetta era fondato. E dopo diversi tentativi per realizzare documentari o fiction capii che la mia urgenza era quella di raccontarlo e non volevo aspettare e così ideai questo spettacolo/conferenza come una sorta di contenitore: da una parte le macchiette televisive e i personaggi cinematografici, dall’altra la lettura delle lettere scritte alla sorella Lella o a Totò o a De Sica o ad amici cari e sconosciuti, oltre considerazioni, testimonianze e sonetti oltre che video di momenti famigliari. Ne viene fuori il ritratto di un uomo complesso e malinconico, con grandi passioni ed entusiasmi spesso non corrisposti.
Quando si pensa ad Aldo Fabrizi, è naturale vengano in mente i numerosi personaggi cui ha dato vita nella sua lunga carriera attoriale: dal bigliettaio di “Avanti c’è posto”, al pescivendolo Peppino Corradini, il vetturino Toto a don Pietro Pellegrini che riassume le figure di Don Pietro Pappagallo e Don Giuseppe Morosini e diventa icona della fragilità umana davanti all’orrore della guerra nel film “Roma città aperta” che usciva nelle sale ottant’anni fa, icona del neorealismo…

Nei suoi anni precedenti al successo si adattò a fare mille lavori per mandare avanti la famiglia e molti di questi poi li portò, come esperienza vissuta personalemente, nei suoi personaggi, sia nel cinema che nel teatro. Riuscì perfettamente così a tratteggiare il pescivendolo di Campo de’ Fiori o il vetturino de L’ultima carrozzella. Come bigliettaio, invece non lavorò mai. E poi, con naturalezza e sensibilità, seppe passare ai ruoli drammatici. Il suo don Pietro in Roma città aperta può scuotere ancora le coscienze e far commuove per tutte le ingiustizie e i soprusi tuttora in atto. Era dotato di un’acuta osservazione, aveva uno sguardo indagatore ed era intelligentissimo. Sapeva mettersi nei panni degli altri, capirne grandezze e debolezze. Quel suo sguardo lo mantenne fino agli ultimi giorni. Era incredibile.
Nel film “Vivere in pace” accanto a lui c’è Ave Ninchi che sarà la sua moglie cinematografica, film preludio alla commedia all’italiana e che gli vale un Nastro d’Argento… (seguiranno la trilogia della famiglia Passaguai, Papà diventa mamma…pellicole autoprodotte con il suo marchio Alfa film che fallirà per colpe non sue…
Con Ave Ninchi aveva già condiviso le tavole dei palcoscenici dell’avanspettacolo e anche della prosa. Avevano lavorato già molto insieme prima di arrivare al cinema. Da piccola credo di aver faticato nel mettere a fuoco chi era veramente mia nonna. La famigliarità e l’atmosfera, i ruoli e le modalità casalinghe presenti nei film che hai citato erano le stesse identiche nella realtà.
Estremamente versatile e con una mimica e una presenza scenica straordinaria, capace di passare dal drammatico al comico, Aldo Fabrizi da volto del cinema neorealista diventa il protagonista di tante commedie all’italiana. Un cambio di passo inevitabile. C’è voglia di ridere e di lasciarsi alle spalle la miseria e la tragedia della guerra. L’incontro con Totò, una storia di amicizia oltre il set perché entrambi figli del popolo che hanno sofferto la fame…
Si, entrambi con un’infanzia e un’adolescenza di miseria e speranze, si stimavano molto. Lavorarono insieme con gran divertimento e mettendo a dura prova i ciak dei registi che non sapevano mai quando interrompere le riprese tale era il fiume irrestistibile delle loro improvvisazioni.
Non solo attore, sceneggiatore e produttore. Aldo Fabrizi sin dagli esordi ama scrivere versi e come fine dicitore comincia a calcare i palchi dei teatri romani, la prima compagnia è la Filodrammatica Tata Giovanni e non rinuncia malgrado la sorte meschina lo rese orfano a soli undici anni costringendolo ad assumere il ruolo di “capofamiglia”. Che rapporto aveva con le sue sorelle e in particolare con Sora Lella?
Di profondo affetto. Nelle sue lettere ai famigliari sono continue le raccomandazioni per le sorelle e le sue richieste circa il loro stato di salute. Ne aveva cinque, tutte più piccole. In giovane età ne perse due, Fernanda e Nannina. Quando rimase orfano, Lella (Elena) era neonata e si ritrovò a 11 anni a farle da padre. E questo suo atteggiamento e affetto non lo perse mai, neanche quando ormai le sorelle erano adulte e sposate e le ha sempre aiutate, in mille modi. Uno di questi è stato trovare lavoro, come comparsa o caratterista, fin dai primi film, per tanti dei suoi famigliari. Prima fra tutti proprio Elena.
Poi arriva il cinema che lo vede protagonista anche come regista ed è doveroso ricordare il suo film d’esordio dietro la macchina da presa con “Emigrantes” del 1949 sul tema della migrazione…
Questa è un’avventura che andrebbe raccontata per bene. Il suo primo film da regista dopo averlo ideato, sceneggiato e, in gran parte, prodotto e, chiaramente interpretato. Eppure le critiche non furono benevoli con lui. Si stupivano che un attore comico potesse dirigere un film drammatico. Evidentemente non ricordavano la sua interpretazione di Roma città aperta o di Vivere in pace o de Il delitto di Giovanni Episcopo.

Ripensando al teatro. Un successo planetario che lo porta anche oltreoceano a vestire i panni del boia Mastro Titta nel Rugantino con un giovane Enrico Montesano…
Ricorderò sempre che emozione era vederlo a teatro, assistere ai perfetti meccanismi attoriali, godersi lo svolgimento dello spettacolo dal vivo, con l’adrenalina per l’esibizione di fronte al pubblico. Sono ricordi importanti, che mi hanno segnato. Amava il teatro più che il cinema per il rapporto immediato che si può stabilire col pubblico e per l’ondata di affetto che se ne può ricevere.
Di Aldo Fabrizi colpisce l’autenticità dei sentimenti che riesce a trasmettere nei molteplici ruoli che ha interpretato e scritto e che ha vissuto nella vita privata e mi riferisco all’amore per la sua Reginella, ovvero Beatrice Rocchi, conosciuta nel 1929 e con cui aveva iniziato a calcare le scene dei teatri italiani cantando stornelli romani e l’amore per la sua famiglia, “la più bella soddisfazione der monno so’ li fiji” scriveva…
Quando Aldo incontrò Beatrice lei era molto bella, vivace e piena di talento e, nonostante cantasse negli avanspettacolo, era una donna semplice e candida. Mio nonno si innamorò perdutamente di lei ed ebbero anni di successo in Italia e all’estero. Poi lei si fermò per dedicarsi ai figli. Aldo, continuò la sua carriera senza alcuna interruzione e questa divenne subito brillante e inarrestabile tanto da non poter non trascurare, in qualche modo, la famiglia. La sua presenza in casa era saltuaria e dipendeva molto dai suoi impegni di lavoro. Si rispettavano, quando era possibile, le visite domenicali oltre che le festività più importanti. Ed è sempre stato così, fino agli ultimi suoi anni. Ma la sua presenza, a volte anche ingombrante, era continua comunque attraverso la fitta corrispondeva che aveva con sorelle, moglie, madre, figli e persino nipoti. Almeno con me.

Stornelli e versi nella lingua romanesca attraverso i quali Aldo esprime da un lato la passione culinaria – era un ottimo cuoco e ha scritto due libri “La pastasciutta. Ricette nuove e Considerazioni in versi”(Mondadori, 1970) e “Nonna minestra” (Mondadori, 1974 e Nonno Pane, sempre per la Mondadori, nel 1980) – e il suo pensiero critico sulla società moderna che aveva perso di vista i sapori e i valori della fanciullezza…
Apprezzava le ricette semplici e la genuinità degli ingredienti e guardava con sospetto tutto il cibo che si allontanava da queste caratteristiche. Così alcuni sonetti rientrano nella tradizione romana caustica e mettono a nudo le ipocrisie della modernità e la scelleratezza di perdere le proprie radici culturali. Sono sonetti che fanno sorridere, a volte ridere, che ci raccontano tanto di come si siano stupidamente depauperati alcuni valori sostanziali, umani, dal grande valore sociale, di condivisione e civiltà. Dopo 50 anni sono ancora attualissimi. Altri sonetti invece sono nostalgici perchè improntati al ricordo della sua infanzia e di odori e sapori di una Roma che non c’è più.
Lù Mière calicidicinema, il format ideato da Antonio Manzo, deriva dal gioco di parole basato sull’ssonanza del cognome “Lumierè; (i fratelli francesi Auguste e Louis, che inventarono il cinematografo), al termine dialettale salentino mieru , usato per indicare il vino. Sappiamo che era un buongustaio, famosa ad esempio la sua “matriciana”, ma quale era il vino preferito di suo nonno?
Non era un gran bevitore e credo, anzi ne sono sicura, amasse i vini leggeri e freschi dei Castelli Romani. Come il cannellino di Frascati per esempio. Un suo vecchio monologo è dedicato al personaggio del carrettiere a vino, una professione antica e ancora in voga ai tempi della sua infanzia. Ne incontrò uno durante la lavorazione del film L’ultima carrozzella e trasse ispirazione per un personaggio molto divertente, un certo Cacarella che canta stornelli e disserta in preda ai fumi dell’alcool.

Cinque anni fa il Festival del Cinema europeo dedicò un’ampia retrospettiva ad Aldo Fabrizi e una mostra al Castello Carlo V. Chesignifica per lei ritornare nel Salento e ricevere nel profondo Sud -stiamo nella Grecìa Salentina – questo Premio alla memoria?
Sono onorata nel ricevere questo premio per mio nonno e torno nel Salento sempre molto volentieri. Purtroppo nel 2020 il grande sforzo che facemmo, assieme al festival del Cinema Europeo, per allestire una bellissima mostra dei suoi film di regia venne vanificato da un lockdown che impedì l’apertura della mostra al pubblico. Peccato. Dalle foto che ho visto gli spazi erano incredibilmente belli e la mostra molto ricca in manifesti, lettere, costumi, rassegna stampa, copioni autografi, fotografie, materiale pubblicitario e persino la cinepresa che si portò in Argentina per il suo Emigrantes. Tutto materiale attinto dall’archivio di mia madre, in gran parte ancora inedito.
Cosa immagina potrebbe dire oggi suo nonno se fosse lui a ricevere il Premio?
Rimarrebbe commosso dal vostro entusiasmo e dalla vostra sana curiosità di conoscerlo. Racconterebbe magari di quando fece uno spettacolo in un teatro della zona o di un amico che era pugliese o salentino. Era sempre molto generoso. Il suo obiettivo era far stare bene la gente, divertirla e farla pensare. Ogni premio ricevuto, ogni encomio e apprezzamento, se sincero e senza secondi fini, lo rendevano felice, gli ribadivano l’amore del pubblico, quell’amore che lo portò da subito a dispensare risate e buon umore o a condividere lacrime e dolore, per un senso di fratellanza umana. Ogni riconoscimento era la conferma che credere in sè stessi e nei propri principi, per quanto poveri e miseri si possa essere, è comunque un gran bel sentiero da seguire e può riservare molte sorprese e soddisfazioni.