Terre del Negramaro Alezio doc

Terre del Negramaro

Alezio doc

di  Antonietta Fulvio

 

Rosso è il colore della terra nel Salento. Quasi creta sgretolata dalla furia del vento indomabile

che scuote le cime dei suoi ulivi, contorcendone i tronchi nodosi e secolari. Affascinanti sculture naturali dalle forme antropomorfe che tanto ricordano i corpi dei contadini che da sempre lavorano questa terra con amore. Instancabilmente, sfidando gli eventi naturali talvolta non senza amarezza.

Niuru Amaru. Niuru, come il nero dell’acino d’uva, amaru come il sapore, gradevolmente amarognolo, una parola: “Negramaro”. Questo il nome del vitigno, possente e generoso, che già anticamente fruttificava in queste fertili pianure ad un passo dal mare. Grappoli neri baciati dal sole, che qui, più che altrove, spacca le zolle e rende dorate le pietre. Pietre di morbido carparo e pietra leccese che mani di abili scultori plasmarono nelle facciate di chiese barocche sulle quali si perde, incantato, lo sguardo.

Qui, in questo tacco d’Italia, dove le strade dell’olio intersecano quelle del vino, la pianura domina il paesaggio che dilaga verso l’orizzonte: è l’immensa distesa del Tavoliere che indolente si protende verso il mare, lasciando che l’Adriatico ad Oriente  e lo Jonio ad Occidente si incontrino a Leuca. Qui, leggenda vuole, la sirena Leucasia per il rimorso si murò viva dopo aver separato i giovani amanti, Meliso e Aristula, che la pietà della dea Minerva trasformò in pietra nelle due estremità del golfo della bianca Leuca.  Le acque del Mediterraneo lambiscono la costa insinuandosi tra incantevoli baie e grotte, qui approdarono gli antichi Elleni che in questi luoghi costruirono il sogno della “Magna Grecia”.  Con i loro templi portarono i miti, la cultura, la devozione per l’ospite e lo spirito della convivialità che nel vino ha la sua intramontabile icona.

“In vino veritas” asseriva lo storico  Plinio e il poeta Alceo già nel VII sec.a.C recitava “Il vino è lo specchio dell’uomo”. Non mancava il vino nel “Simposio” di Platone, c’era del vino sul tavolo dell’Ultima cena del Cristo…

E sorseggiando un calice, si possono raccontare le storie del mondo, descrivere luoghi, immaginare sentieri da scoprire…. Un culto antico testimoniato finanche sui vasi di creta dove si rincorrevano satiri e menadi, festanti ed ebbri, seguaci del dio Dionisio. E se per i greci bere vino era anche segno di prestigio sociale, un precetto della Scuola Medica dell’anno Mille decretava: “Gli uomini bevano i vini, gli altri esseri le acque di fonte”.  Nel vino, la differenza.

Un vino rigorosamente rosso.

Rosso rubino, talvolta con sfumature d’arancio, è il colore dell’Alezio doc, alchimia di Negramaro con l’aggiunta di Malvasia Nera di Lecce, Sangiovese e Montepulciano (in percentuale del 20%).  Ad istituirlo un Decreto, il 9 febbraio 1983, ma la sua origine si perde nella memoria di questa terra ed  è oggi tra i più ricercati doc del Salento per l’intenso bouquet fruttato con sentori che ricordano la marasca e il tabacco; unico per il suo sapore secco e intenso e quel retrogusto un po’ amaro capace di esaltare i piatti della gastronomia non solo salentina.  Arrosti di carne e di agnello, braciole e involtini di carne di vitello o di cavallo, conditi con basilico sale e pepe o rosolati in olio d’oliva con cipolla, aglio e pomodorini. Una delizia per chi ama il gusto delle cose semplici, la varietà della dieta mediterranea che accosta nel piatto sapori, saperi e colori.

E di un colore  rosa corallo intenso è l’Alezio Rosato, dal sapore asciutto, armonico e vellutato, con quel leggero retrogusto amarognolo che lo rende inconfondibile.  Rosso o rosato, il vino deve essere assaporato lentamente, come un rito, negli ampi calici di cristallo perché prima di sorseggiarlo se ne possa contemplare il colore brillante. Non più tardi dei cinque anni dalla vendemmia, il vino deve essere servito ad una temperatura tra  i 16° e i 18 ° perché se ne possa apprezzare interamente l’essenza, il trionfo di fragranze che fanno dell’Alezio doc musica per i sensi, dagli occhi al palato, all’olfatto. Evocazione perfetta dei profumi e colori della terra che lo genera.

Dei profumi del tabacco – un tempo cuore e speranza dell’economia contadina  – e di marasca, la succosa ciliegia, da cui si ottiene il maraschino. Dei colori della macchia mediterranea che si confonde tra filari di viti, ulivi e muretti a secco, delimitando masserie e tratturi  che incorniciano la campagna salentina, imprimendola nella memoria. Come indimenticabili sono le case a corte, i balconi e i cortili fioriti che si aprono all’improvviso tra i vicoli tortuosi del borgo vecchio di Gallipoli, l’Anxa porto della messapica Alezio. Quella di Gallipoli è una storia antica che la vede colonia della Magna Grecia e poi di Roma, saccheggiata dai Vandali, dai Goti e ricostruita dai Bizantini che ne seppero valorizzare la strategica posizione geografica.  Occupata dai Normanni e poi dagli Angioini, Gallipoli finì nel Settecento sotto il regno dei Borbone che costruirono il porto, il più importante scalo nel Mediterraneo per il commercio dell’olio lampante. A Palazzo Granafei si trova, infatti, l’imponente frantoio ipogeo e l’olio che vi si produceva, destinato per l’illuminazione, veniva esportato in molte città d’Europa.  Segno di inequivocabile grandezza. Gallipoli, probabilmente dal greco “kallipolis” ovvero città bella, sorge su un’isola calcarea, collegata alla terraferma da un ponte in muratura del Seicento; le mura e i bastioni risalgono invece al Quattrocento, quando era necessario difendersi dai cruenti attacchi dei Saraceni che seminarono il terrore nel Salento come testimoniano i Martiri d’Otranto.

Attraversando il centro storico, percorrendo la via intitolata all’eroina risorgimentale Antonietta De Pace, si resta soggiogati da gioielli dell’architettura sacra e palazzi signorili di maestosa bellezza, perfettamente incastonati nel dedalo di vie. Si può non restare affascinati dalla monumentalità della cattedrale dedicata a Sant’Agata il cui culto la gemella alla vulcanica città di Catania? Esempio straordinario del barocco leccese, la Chiesa conserva inestimabili tesori d’arte, dalle numerose tele all’altare maggiore, in marmi policromi, opera dell’artista bergamasco Cosimo Fanzago. Come non citare la Chiesa di San Francesco di Paola e quella di Santa Maria la Purità che custodisce, tra l’altro, una bellissima tela di Luca Giordano? E ancora la Chiesa di San Francesco d’Assisi visitata dal sommo Vate nel 1895. O la Chiesa di Santa Maria degli Angeli che fronteggia l’Isola di Sant’Andrea, oggi con il litorale di Punta Pizzo parco regionale, che vanta la presenza unica su tutto il versante adriatico e jonico di una colonia nidificante del Gabbiano corso, specie endemica del bacino del Mediterraneo. Un parco meraviglioso per le diverse specie di flora che vanno dalla macchia, trionfo di ginestre, mirti, lentischi, corbezzoli, erica, rosmarino e timo alle pratoline, calendule e orchidee, compresa la rarissima orchidea italica. Dalla natura all’arte, nelle terre dell’Alezio le sorprese sono infinite.

Come la piccola cappella dedicata alla patrona di Gallipoli, Santa Cristina, che fermò il colera. Eretto vicino al porto peschereccio, di fronte al Rivellino cortina del Castello Angioino, il santuario conserva la statua di Santa Cristina da Bolsena. Un tempo sconsacrata e adibita a deposito per le reti dei pescatori, la Chiesa fu recuperata nel 1865 e restituita ai fedeli che celebrano la Santa nella grande festa che, tra sacro e profano, scocca al mattino del 23 luglio, con il tradizionale sparo delle carcasse, e prosegue nei due giorni successivi con il suo tripudio di luci, di note di concerti bandistici, dei sapori della scapece e della cupeta, bagnati dall’immancabile vino di Alezio.

Marinai per vocazione, i gallipolini devoti ai santi e al mare sono però anche abilissimi costruttori di botti nelle quali conservare il vino più pregiato: l’Alezio doc, il cui colore sembra rievocare l’azzurro Jonio che al tramonto si tinge di rosso e di arancio. Il rosso che è richiamo alla terra, quella dell’agro di Sannicola che si lascia il mare alle spalle e via via si addentra nella campagna: per chilometri e chilometri lo sguardo può spaziare sulle distese odorose di ulivi secolari che il tempo ha scolpito nei tronchi e nelle chiome e  sui vigneti cangianti, con i tralci nodosi che si curvano in pergolati ricchi di pampini da cui pendono meravigliosi grappoli d’uva. La vite qui si coltiva da sempre, con estrema dedizione e nel segno di una tradizione che si rinnova perché  è storia di storie, profondamente umane, che parlano dello stretto legame che unisce l’uomo alla propria terra. Nella festa de Lu Masciu, ad esempio, si ripete ogni anno un’usanza antica: il promesso sposo consacra la sua promessa di matrimonio donando alla sua innamorata i primi frutti della terra.

L’oro rosso –  e l’oro giallo – del Salento nascono anche da queste serre rigogliose, le colline odorose di timo come amava definirle lo scrittore Giuseppe Castiglione. E’ Sannicola  terra di masserie e di casini, di furnieddhi e di edicole votive, luoghi bucolici di virgiliana memoria che ispiravano la sana pratica dell’ozio e del riposo, lontano dai clamori della città portuale, e di dimore signorili, specie sulla direttrice Sannicola -Alezio, che in pieno Ottocento, furono rifugio per i patrioti gallipolini. Una retta immaginaria collega Sannicola a Tuglie, tra corti e chiese barocche, terra fertile e generosa, coltivata di generazione in generazione con estrema passione. Una vocazione che ha dato vita al Museo della Civiltà contadina, ospitato nelle sedici sale del seicentesco Palazzo Ducale che, dotato di un palmento, conserva l’attrezzatura originale (la vasca in pietra per la fermentazione, la caditoia dell’uva e un torchio del Settecento) per trasformare l’uva in vino, così come avviene con le olive in olio nel trappeto. In mostra, anche tutti gli attrezzi di lavoro dei mestieri legati al mondo contadino: il fabbro, il bottaio, il falegname, il maniscalco, il carpentiere. Le enormi pialle per levigare il legno, le ingegnose livelle per le botti, i ganci di traino e ancora le roncule, i crocci, gli stompaturi, per pigiare l’uva, e le fische, per confezionare la ricotta, sono solo alcuni degli utensili che raccontano una civiltà spazzata via dal progresso, non più tardi di mezzo secolo fa. Un viaggio a ritroso nel tempo, tra usi e costumi e, non solo. Il Museo è anche bioparco con tanto di insediamento rupestre medioevale,  l’orto botanico e il belvedere, un vero e proprio balcone naturale sulle Serre salentine da dove ammirare la piana di Gallipoli. Usciti dal Museo, in prossimità di Piazza Garibaldi, accanto al Palazzo Ducale nella sua maestosità barocca si erige la Chiesa Matrice, modellata nel tufo Mater Gratiae estratto dalle antiche cave, accanto le svetta la Torre civica dell’Orologio, anch’essa in tufo, eretta nel 1884. Istituito solo cinque anni fa, recuperando un antico frantoio ipogeo del XVII secolo, c’è il Museo della Radio, ai piedi della “salita della Croce” esempio della valorizzazione delle identità culturali attraverso i luoghi dell’archeologia rupestre. Con gli oggetti della collezione privata Micali, esso documenta l’evoluzione dei sistemi di trasmissione e di ascolto fornendo un affascinante percorso nella storia della radiofonia.

“Beato chi in vita ha potuto percorrere in lungo e in largo tutta quanta la regione dov’è nato, imparato a conoscere anzitutto quelli della sua antica stirpe”. A pronunciare queste parole non è stato lo scienziato e inventore Guglielmo Marconi ma il raffinato umanista e politico Tommaso Fiore. Nelle pagine del suo libro, “Un popolo di formiche”, ritraeva la gente laboriosa di Puglia e la straordinaria bellezza di questa terra, dove le meraviglie da scoprire si trovano una dopo l’altra, come filari di vite. Non molto distante da Tuglie, in direzione Gallipoli, quasi a chiudere un magico cerchio, si trova Alezio, antica città messapica. Lo testimoniano i numerosi reperti conservati nel settecentesco palazzo Tafuri  oggi sede del Museo Civico Messapico, realizzato dopo gli scavi della necropoli. Monumento nazionale nel 1981, il Museo è stato inaugurato nel 1982 e raccoglie i numerosi reperti, soprattutto corredi funerari, ori e gioielli provenienti da rinvenimenti occasionali sotto la città e dalla zona di Monte d’Elia, collocabili tra gli inizi del IV e gli inizi del III secolo a.C.

Attiguo al Museo è il Parco archeologico che presenta diverse tipologie di tombe messapiche databili tra il VI ed il II secolo a.C. mentre ulteriore attrattiva per il turismo è la Chiesa di Santa Maria alla Lizza (X- XII secolo), un tempo completamente affrescata,  testimonianza – come per l’abbazia di San Mauro a Sannicola  – della presenza dei monaci basiliani fuggiti dall’Oriente che in questa terra di frontiera trovarono accoglienza, vitalità, ricchezza.

Chi giunge ad Alezio resta affascinato dalla meravigliosa corrispondenza tra natura e storia, identità e cultura. Proprio come si assapora nel vino che porta il suo nome e per il quale valgono i versi di Pablo Neruda, il divino poeta dell’amore: «vino,/ figlio stellato/ della terra,/ vino liscio/ come una spada d’oro,/ morbido / come un velluto scompigliato,/ vino ravvolto a chiocciola/ o sospeso,/ vino amoroso,/ marino,/ non sei mai entrato tutto in una coppa,/ in un canto, in un uomo,/ sei anzi corale, gregario,/ o almeno reciproco».

 

*(“Ode al vino”, da “Poesie” Sansoni, Firenze, 1962, p. 517)

(pubblicato sulla rivista “D’Enghien”,1 maggio 2010 )