Caro ulivo, ti scrivo

I luoghi della parola/ spazio recensione

Caro ulivo, ti scrivo

 di Maria Grazia Anglano

Sciamano al vento, forti e radicate creature spesso esposte al fiato del mare. Hanno la forza millenaria di un sempre prima di noi, e con noi. Archetipi di un paesaggio ormai interiorizzato, vera e propria immagine identitaria, sedimentata nella carne della nostra memoria. 

Sono gli ulivi, pelle rugosa di possenti e scultorei fusti e chioma argentea verde, prodiga di frutti.

Dalla sua molitura gocce – essenze. Preziose per le loro capacità mediche prima ancora che nutritive. 

A quest’unico denominatore ha voluto fare riferimento il Raggio Verde edizioni, nei dieci anni della propria casa editrice. Inaugurando una nuova collana dedicata a “Storie e natura” con il libro “Caro ulivo ti scrivo”.

 Un libro composto da più voci e che si avvale di diversi  linguaggi, dalla narrativa, alla lirica, alla lettera e la prosa. Non ultimo si affianca anche il linguaggio pittorico, che impreziosisce e funge da immagine di copertina. 

E come la molitura rompe la drupa e libera dai vacuoli il “dorato nettare”, così queste voci

rompono il silenzio per farsi parola; linguaggio. Fra loro scrittori e giornalisti, tra cui più dettagliatamente: Lucia Accoto, Grazia Barba, Luigi Caricato, Pino De Luca, Antonio Errico, Giuseppe Pascali, Maria Pia Romano e l’artista Massimo Quarta. 

 

“Segnata dalla profezia” Lucia Accoto  E’ un intenso racconto che taglia, in un volo trasversale, un periodo storico saturo ancora di pregiudizi, come onte predestinate e immutabili. La vocazione di Ester (personaggio principale) alla parola scritta e alla verità insita in essa, nasce già come sacrilegio. L’urlo rabbioso  che le lacera dal petto questa verità le ripete “È scritto. Patirai le tue colpe” e come una bestia la abita quando crede, gelandola nel profondo come un triste presagio. 

La storia si evolve in questa molle incombenza, in questo respiro imprescindibile che chiede, esige, la sua profezia. Ed essa cade cupa quasi su ogni personaggio. Personaggi sfatti dalla durezza della vita, e dalla fatica quotidiana. Ma Ester è segnata dalla nascita da una strana voglia, disegnata sulla fronte. Due lacrime color verde olio, fra i due occhi innocenti e assetati di conoscenza. Ester lotterà, contro una realtà già precostituita cercando di dar vita al suo sogno, ma dovrà scontrarsi con la rabbia mostruosa e diabolica della sua “profezia”, e del mito in ultimo, che trasformerà la sua vita. 

 

 “Vorrei che tu sapessi” lirica di Grazia Barba. È un’intima lode, a quest’antropomorfica e secolare  pianta. Tutto si declina in forma di dialogo e desiderio di far sapere quante cose, e quali valori esso rappresenti. 

/ Vorrei che tu sapessi che i tuoi frutti hanno di te il sapore di una madre prodiga e mai stanca. 

Vorrei che tu sapessi che l’oro che ci regali ha l’odore della fatica e il sapore della conquista/. 

Questo il corpus del testo poetico della Barba, che ben rappresenta e sintetizza il ciclo di vita, storia e magia, che indissolubilmente vanno dalla pianta, all’uomo.

 

 

“Caro Olivo, uno e molteplice” di Luigi Caricato.  E’un apertis verbis questa dichiarazione d’amore per la pianta d’ulivo, che come l’autore stesso dice è uno e molteplice. Molteplice perché tanti sono gli usi che se ne fanno dalla farmacopea, alla cosmetica ai luoghi più impensabili della cultura. E tutto è perfettamente ascrivibile alla sua natura complessa e semplice, che da sempre lo contraddistingue. E quasi a confine tra il sacro e il profano, esso rimane quel liquido prezioso e salutare capace di guarire anima e corpo, scongiurando infermità fisica e spirituale. Luigi Caricato, in tutto il suo excursus, si fa appassionato cantore di una pianta così dentro l’economia e la bellezza, di un collettivo paesaggio.

 

 

 

 

“Come un sacco di stracci” Pino De Luca 

È un giallo piacevole da leggersi questo di Pino De Luca, per l’esposizione e le congetture che si concatenano e si rafforzano d’indizi, anche in una possibile lettura al contrario. Dalla fine verso il suo inizio. Il caso tratta un suicidio, che ha come teatro una normalissima e tranquilla campagna. Dove da un maestoso albero di ulivo sventola ormai esanime, come un sacco di stracci, il De Lazzari. Il caso dapprima quasi già archiviato, si riapre grazie ad un unico testimone, l’ultimo che abbia potuto vedere ancora vivo il De Lazzari. Un testimone millenario e involontario, certamente super partes, l’albero d’ulivo! 

 

 

 

 

 

 

L’ombra tra gli ulivi.” Antonio Errico. 

Errico evolve per immagini questo suo racconto breve. Immagini che hanno la rarefazione dell’aria e della luce. Rafforzate dal punto spesso ricorrente, che formano brevi periodi  senza  frammentare. Anzi dilatando quest’atemporalità, di cui vive la storia. Un’atemporalità di un vissuto compartecipato da tutti i sensi, nessuno escluso. E che si fisseranno come immagine vitale, in questa donna, anche nel momento dell’attesa e del gelo, di una stanza angusta, che odora di umido. La storia vive di questa dualità fra la vita e la morte. Ma una morte non temuta, perché abbacinata dall’amore scoperto. Un amore clandestino e potente che la riconnette alla vita. La dissolvenza dell’immagine torna come un frame-stop, nella sua mente. Dove l’ombra amata procede tra gli ulivi.

 

 

 

Contro il vento della modernità.” Giuseppe Pascali 

Pascali ascolta e accoglie le voci di un antico paesaggio rurale, che si umanizza alla sua penna. Come un vecchio amico infatti, sarà proprio l’ulivo a discorrere di sé, di speranze e timori per un vento che porta con sé una sconosciuta modernità. Poi sposta il suo sguardo lungo i secolari assi della sua vita, e ne riscopre i colori vivificati dal rosso della terra. Racconta di quanto siano cambiati i frantoi e ricorda ancora nitidamente, i sibili delle bombe della guerra. E seppure portato lì da piccolo in quella terra, lui la sente profondamente sua, nei colori delle stagioni e nelle tante voci amiche. Però una nuova insidia, figlia del vento della modernità è lì, ad aprire purtroppo altri e possibili scenari.

“Dacci oggi il nostro pane” Maria Pia Romano.  

È una vera e propria testimonianza, quella che traspone in queste pagine Maria Pia Romano. Un altro e attuale punto di vista. Capace di ripartire e ripensarsi non da quanto si è perso, ma da quanto già abbiamo come risorsa. Particolarmente adesso che sempre più persone si vedono defraudate del legittimo investimento per il  futuro, reso monco dall’improvvisa perdita del proprio lavoro.   
Così questa donna singolare e coraggiosa, mette a frutto le proprie risorse anche a costo di mani nere e dura fatica. Ripartendo dalle proprie radici. E dal prodigo albero d’ulivo. E durante le ore in cui la mente vaga, preponderano quei sogni che desideravano essere; parole e cromie. E come attraverso un varco temporale dialoga con una liquidità di pensieri, che la ricollega a quando ancora ragazza tutto sembrava possibile. Anche cambiare il mondo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Massimo Quarta Racchiude con la sua opera l’immagine di copertina di “Caro olio ti scrivo”, con un opera del ciclo dei farbonauti. Esseri apparentemente alieni, che vivono però intrinsecamente nel tessuto della nostra società, diventandone addirittura i vettori, per le loro mode e i loro popolare paesaggi del quotidiano. L’elemento dissimile è però nel nucleo della propria identità, che non c’è! L’elemento caratterizzante e riconoscibile ha smesso il suo valore di “dissimiglianza”. La testa, elemento di cognizione del sé e intorno a sé, ha compiuto una necessaria mutazione, diventando un grande bulbo oculare, dove la bocca si presta a disegnare una perfetta iride. Sino a popolare una moltitudine replicante e acefala, sintomo di una società oberata da immagini. Una società voyeuristica che immagazzina acriticamente immagini. Ecco allora la necessaria e naturale mutazione che amplifica anatomicamente, ciò di cui più facciamo uso, e annulla, cancella, ciò che più non rientra nelle nostre necessità. E, seppure in questa sembianze, Quarta riesce comunque a far trasparire dai suoi farbonauti umanità, seduzione e sorriso. Bypassando tutta quella mimica facciale, con maestria e artificio, attraverso la postura del corpo, e il suo linguaggio gestuale. Il colore si connota con forza espressiva, nei toni preferibilmente primari, rafforzati dall’incisività del nero. Ma ecco però che a questa nostra difficile realtà, Quarta supplisce una surrealtà. Una dimensione di riscatto, binaria e parallela tra idealità e sogno. Qui crea, per le sue creature, il farbomondo. Un mondo senza più dissimiglianze, dove le sue creature sono perfettamente armoniche al proprio habitat. Nel farbomondo il colore non stride più si fa accogliente, con una natura prodiga di una fantasmagorica flora. Quarta, ha potuto così riconsegnare, alle sue creature l’Eden perso. Un’originaria primordialità che non è luogo precluso, ma accessibile e riconquistabile per ognuno di noi. Luogo dove poter ritrovare anche l’immagine delle nostre radici.  Archetipo della nostra salentinità.