Conversazioni con Francesco Speranza

Un maestro del Novecento e venti pittori di oggi
in mostra al Museo Diocesano di Bitonto

Francesco Paolo Del Re

Un dialogo impossibile diventa possibile nello spazio di una mostra, dove il tempo si sospende. Il progetto di “Conversazioni con Francesco Speranza”, da me curato e ospitato dal 30 agosto al 30 settembre dal Museo Diocesano “Mons. A. Marena” di Bitonto in provincia di Bari (via Ferrante Aporti 15), vuole intessere dialoghi tra un maestro del Novecento pugliese e venti artisti che utilizzano oggi la pittura come linguaggio privilegiato della loro arte: Natascia Abbattista, Damiano Azzizia, Pierluca Cetera, Francesco Cuna, Nicola Curri, Vincenzo De Bari, Pietro Di Terlizzi, Pasquale Gadaleta, Simona Anna Gentile, Jara Marzulli, Luigi Massari, Pierpaolo Miccolis, Dario Molinaro, Enzo Morelli, Alessandro Passaro, Luigi Presicce, Claudia Resta, Fabrizio Riccardi, Michael Rotondi e Domenico Ventura.


Quella che ho immaginato è una mostra parlata e parlante. È immersa in un orizzonte discorsivo e della conversazione amichevole possiede l’intonazione e i ritmi. A imprimere questo andamento affabulatorio è la pittura stessa di Francesco Speranza. Come i suoi sodali Gian Filippo Usellini e Lugi Filocamo, con cui ha studiato a Brera e ha intrattenuto un’amicizia durata una vita, Speranza è un pittore parlante, un grande, grandissimo raccontatore di storie. Storie minute, come sono minuti i personaggi che affollano spesso le sue vedute paesane, storie sacre della vita dei santi e storie profane della vita quotidiana di una Puglia in cui il tempo è sospeso in un’estate infinita, quella dell’infanzia del pittore o del sogno del ritorno dell’emigrante che cerca in un sud originario e profondo un posto in cui riposare e il conforto di un affetto da cui farsi abbracciare. Nato a Bitonto nel 1902, Francesco Speranza studia prima a Napoli e poi a Milano all’Accademia di Brera, diplomandosi in pittura nel 1926. Nonostante trascorra tutta la vita a Milano partecipando attivamente alla temperie artistica della città ed esponendo le sue opere nelle più prestigiose rassegne nazionali come la Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma, mantiene sempre un legame profondissimo con la Puglia, sia a livello personale che dal punto di vista pittorico, e muore a Santo Spirito nel 1984 nella sua casa affacciata sul mare, a pochi chilometri dal luogo dove è nato.
Il Museo Diocesano di Bitonto “Mons. A. Marena”, recentemente riallestito negli spazi dell’ex seminario, conserva nella sua collezione sei dipinti di Speranza, donati dall’artista negli ultimi anni della sua vita e dalla moglie Marina dopo la morte del pittore. Uno di questi, in particolare, non passa inosservato. È una grande tavola del 1951 che racconta l’incontro di Cristo e della Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Le suggestioni dell’arte del Quattrocento tanto cara a Speranza in questo dipinto sembrano incontrare l’eloquenza di Hollywood. La Samaritana che il pittore presenta al pubblico è bella come Liz Taylor e la scena sembra una sequenza cinematografica in Technicolor, laddove la ieraticità cede il passo a un’immediatezza di linguaggio che introduce chi osserva nel mezzo della narrazione. La donna e Gesù sono colti dal pittore mentre intrattengono tra loro una fitta conversazione e da qui, da questa conversazione, la mostra prende avvio, idealmente. Da questa necessità delle figure dei dipinti di Speranza di parlare con voci ogni volta diverse, anche a trentasei anni dalla sua morte.
Volendo rispondere a una che mi pare venire dagli stessi suoi dipinti, ho deciso di fare conversare una volta ancora Francesco Speranza pubblicamente, di ridargli la parola e di accompagnarla con delle risposte di altri artisti in un dialogo ideale. Per mostrare la vitalità e la vivacità della sua pittura, gli interlocutori da me invitati a prendere parte a questa polifonia non sono altri pittori del Novecento ma artisti di oggi scelti perché pittori come Speranza è stato e perché accomunati dalla sua stessa origine pugliese.


Il progetto della mostra segue due linee distinte e idealmente parallele: da una parte sono stati selezionati dipinti di Speranza provenienti da raccolte pubbliche e collezioni private che coprono un arco temporale che va dagli anni Venti fino alle opere dell’ultima parte della sua produzione e sono esemplificativi di diversi aspetti della sua ricerca artistica, privilegiando quadri in cui è protagonista la figura umana come incarnazione di un racconto che conduca alla soglia del divino, e dall’altra venti opere di venti artisti diversissimi fra loro permettono di gettare uno sguardo sinottico e curioso su alcuni percorsi attuali della pittura in Puglia, nel tentativo di rispondere alla domanda sull’esistenza di una possibile comune radice identitaria che vada al di là del mero dato geografico. I due percorsi però non restano separati, impermeabili l’uno all’altro, ma si intrecciano e si compenetrano e nell’accostamento di opere ed esperienze diverse si compongono dei dittici o dei polittici immaginari, laddove i dipinti di Speranza vengono messi in dialogo con le opere dei pittori viventi secondo criteri ora tematici e ora formali, ora evidenziando assonanze e ora facendo vibrare le corde di una dissonanza, ma sempre alla ricerca di un senso nuovo e di una chiave di lettura inedita nel cortocircuito tra passato prossimo e presente.
A guidare la mostra e a chiamare la necessità di un confronto (o di uno scontro) sono dunque i dipinti di Francesco Speranza, alcuni dei quali sono inediti o pochissimo visti in occasioni espositive precedenti. La mostra raccoglie le opere del maestro bitontino senza seguire un ordine espositivo né filologico né cronologico ma asseconda il flusso variabile che si addice a una conversazione informale e vuole raccontare alcuni temi della pittura di Speranza e la vitalità della sua figura di artista nel riflesso che si riverbera sulle attuali tendenze del discorso pittorico.
Il percorso espositivo parte dai dipinti di Speranza conservati nella collezione del Museo Diocesano di Bitonto. “Gesù nell’orto” del 1942 dialoga con la pittura beffarda di Domenico Ventura che con grazia vernacolare mette una “Collana di spine” a un Cristo donna di cui non vediamo il volto. “Visitare gli infermi” del 1949 viene affiancato a un ritratto di Nicola Curri, di precisione realistica eppure sognante, di un ragazzo addormentato osservato in treno. “Gesù divino lavoratore” del 1959 si accosta a un dipinto di Alessandro Passaro realizzato su una sega, con un Cristo telamone che regge il manico dell’attrezzo poggiando i piedi in uno skateboard infisso in un muro. “Cristo e la Samaritana presso il pozzo” del 1952 si confronta con due gatti di Pierpaolo Miccolis che giganteggiano come Sfingi, mostrando un’analogia dello schema compositivo delle due figure stanti a cui viene apportata una variante significativa che nel passaggio da Speranza a Miccolis fa transitare sull’osservatore il turno della parola e il senso del discorso. “Il Giullare di Dio. San Francesco” del 1960 si specchia in un dipinto digitale di Michael Rotondi, che appartiene a una serie di santini iper-pop a cui il pittore sta lavorando nell’ultimo periodo, portando il gesto pittorico dalla tela allo schermo.
Si aggiungono dipinti conservati in altre collezioni pubbliche, come il mirabile “Ritratto della sorella Nina” del 1929 e un “Autoritratto” postbellico della Fondazione De Palo – Ungaro messi a confronto rispettivamente con un grande ritratto femminile di Pierluca Cetera di gusto primonovecentesco condito con un pizzico di malizia e con gli ipnotici autoritratti di Pasquale Gadaleta e di Luigi Presicce (quest’ultimo realizzato appositamente per la mostra), oppure “Campagna e carro del mio paese” del 1951 conservato presso il Teatro Comunale “Tommaso Traetta” che dialoga con un’opera di Fabrizio Riccardi, un carretto di folli di ispirazione fiamminga realizzato con un’impressione di calore su carta termica che sembra manifestarsi per volontà propria sul foglio assommando elementi quasi casuali.
La mostra presenta inoltre opere provenienti da collezioni private, prima d’ora raramente accessibili al pubblico. Un piccolo ritratto muliebre del 1924 va a comporre un trittico con due ritrattini di Vincenzo De Bari e Claudia Resta, diversi eppure egualmente interessanti dal punto di vista dello scavo psicologico. Un prezioso “Ritratto di mia Madre” del 1939 si scontra con una figura materna di Natascia Abbattista: l’amore incondizionato di Speranza per sua madre ritratta – ormai quasi completamente cieca – poco prima della sua morte si scontra con la violenta pittura di Abbattista che esprime tutta la conflittualità di un’inversione di ruoli per cui la figlia si trova a essere madre di sua madre. “Fuga in Egitto” del 1957, in cui è la moglie del pittore Marina Bagassi a posare come modella per la Madonna per quello che forse è il suo primo ritratto, viene messa a confronto con un dipinto di Francesco Cuna che affronta il tema della ricerca del sacro con ironia e con la sapienza di una pittura che ambisce al confronto con lo sfumato leonardiano. Un esterno pugliese di una chiesetta di campagna del 1979 sovrastata da un intreccio di alberi viene confrontato, per contrasto, con un interno dipinto da Damiano Azzizia con rigore e nitore quasi metafisico sul precario supporto di un cartone riciclato a cui l’artista dona nuova vita. Un grande nudo accademico degli anni di Brera, datato 1926, fa il paio con un nudo espressionista di Dario Molinaro dalla cromia accattivante e di densa materia pittorica. Tre nature morte (del ’40, del ’59 e dell’81) intrattengono una conversazione con gli elementi geometrici nello spazio di Pietro Di Terlizzi intitolati significativamente “Arricchimento dello spirito”, scoprendo interessanti analogie compositive nell’uso dei volumi e dei toni, e con una natura morta di Enzo Morelli di classicissima eleganza. Uno scorcio di Milano visto dai navigli del 1979 si misura con i segni delicati della pittura di Simona Anna Gentile che porta in mostra una pagina del suo quaderno di appunti estivo in cui racconta le montagne di Bolzano. “Scilla” del 1963 e “Sant’Antonio che parla ai pesci” del 1966, opere entrambe esposte alla retrospettiva allestita nel Palazzo dell’Arengario a Milano del 1971, si trovano infine a dialogare con un dipinto montuoso di Luigi Massari, che nel collegamento tra terra e cielo guarda alla montagna come sito arcaico originariamente adibito a santuario e luogo sacro, e con una visione sciamanica di Jara Marzulli, un vibrante ritratto di una bambina che gioca con gli insetti.