Presicce, il borgo dei “mascarani”
Dal 2011 è tra i borghi più belli d’Italia con le sue cantine ingrottate, i frantoi ipogei il Castello e i palazzi gentilizi
Sara Foti Sciavaliere
Il centro storico di Presicce, tra i “Borghi più belli d’Italia” dal 2011, si è strutturato tra Cinquecento e Settecento su “cantine ingrottate” e frantoi ipogei. Un paese elegantemente scolpito nella pietra leccese che gode della luce e del sole del Salento e al contempo nasconde una “città sotterranea”, testimonianza di un arcaico sistema di lavorazione delle olive, oggi significativo esempio di archeologia industriale.
Una passeggiata nel cuore del borgo ci mostra un impianto urbano caratterizzato da palazzi gentilizi e graziose case a corte che evidenziano una committenza benestante e abili maestranze locali, una “proiezione architettonica” della ricchezza economica dei proprietari dei trappeti. Si trattava principalmente di una ricca borghesia terriera, talvolta immigrata con ingenti patrimoni e insediatasi a partire dal XVI secolo, che in alcuni casi riuscì a consolidare la propria posizione economica e di prestigio favorita dal debole potere dei feudatari locali, magari residenti altrove. Così camminando per il centro storico ci si imbatte in imponenti costruzioni “palaziate” come, per esempio, Castello Arditi, Palazzo Cara, palazzo Ducale con i giardini pensili, palazzo Soronzi, Palazzo Rollo, Casa Turrita, Casa Adamo-Izzo oppure Palazzo Villani. Ad esse si associano poi le case a corte contadine, prospicienti su piazzette e viuzze tortuose, cristallizzando nel tempo il senso del vicinato e della condivisione, le cui atmosfere si rivivano ancora nel rione Corciuli e in piazzetta Padreterno, dove i pozzi e la pila per lavare i panni rinnovano memorie forse altrimenti perdute.
Un percorso a Presicce potrebbe iniziare da Piazza Villani, dove si erge la colonna di Sant’Andrea, alla quale fa da sfondo il prospetto barocco della Chiesa Matrice intitolata al medesimo Apostolo e a Maria SS. Assunta in Cielo. Quest’ultima fu costruita a partire dal 1778, sullo stesso sito della precedente chiesa del Cinquecento ritenuta non più adeguata per la popolazione crescente e riedificata piuttosto in fretta, in circa diciotto mesi. È un esempio di architettura tardo-barocca, che al suo interno conserva tele attribuite a noti autori locali quali il Catalano e Oronzo Tiso. L’altare maggiore insieme alla balaustra e il fonte battesimale sono in marmi policromi e di fattura napoletana; gli elementi figurativi – angeli, cherubini e il bassorilievo del Santo Patrono – rimandano probabilmente alla bottega del celebre scultore Giuseppe Sanmartino, autore del “Cristo Velato” della Cappella Sansevero a Napoli. Adiacente al braccio destro del transetto si trova l’accesso a una cappella denominata “chiesa dei morti” per i numerosi i sepolcri ipogei che qui si trovavano, in uso fino alla fine dell’Ottocento. Sulla parete di fondo della cappella un altare settecentesco in stucco sul quale è collocato un prezioso ciborio ligneo policromo del Seicento; sui fianchi dell’altare si aprono due porte che collegano a un ambiente (prossimo al sopravvissuto campanile del ‘500) rilevato dai recenti interventi di restauro, mettendo in luce sia gli antichi fornici che connettevano ciascuna cappella alla navata centrale della chiesa matrice del Cinquecento, sia porzioni di affreschi e decorazioni pittoriche databili tra il XV e il XVI secolo.
Ritornando sulla piazza, lo spazio è in ampia parte assorbito dal grande basamento ornato da fregi e mascheroni, sormontato dalla balaustra scolpita e quattro statue femminili (tre delle quali acefale) raffiguranti le virtù cardinali; dal centro si slancia l’alto fusto sormontato da un capitello corinzio su cui è collocata la statua del Santo Patrono. Il riferimento a Sant’Andrea in realtà, secondo la tradizione, si deve a una disgrazia capitata ai locali feudatari nel XVII secolo: nel 1616,di fatto, moriva a soli quattro anni il piccolo Andrea, primogenito del principe di Castellaneta, Francesco Bartilotti, e della baronessa Maria Cyto Moles, che vivevano nel castello del barone di Presicce, e il principe Bartilotti fece erigere la colonna votiva a Sant’Andrea Apostolo in memoria del figlio morto. La statua del santo guarda verso via Michele Arditi, forse perché in quella direzione, a circa un chilometro dal centro, sorge la cinquecentesca Chiesa di S.Maria degli Angeli insieme all’ex convento dei Padri Riformati, ubicati ai piedi della serra di Pozzomauro, uno dei casali vicini, poi abbandonati e dai quali Presicce pare prenda origine.
E proprio via M.Arditi (un tempo via Sant’Anna) è una delle strade gentilizie del borgo, con i suoi nobili palazzi costruiti tra la fine del XVI secolo e quella del XIX secolo. Tra gli edifici che costeggiano la strada ricordiamo palazzo Arditi, casa natale del celebre Michele Arditi – giureconsulto, archeologo, scienziato, musicista, e soprattutto fondatore del Museo Archeologico di Napoli – (al quale non a caso è intitolata la via) e la pertinente cappella settecentesca di gusto rococò dedicata a “Maria SS. e S.Giuseppe della Fuga in Egitto”.
Se ci spostiamo invece sul lato opposto di Piazza Villani, si raggiunge Piazza del Popolo, passando accanto a Palazzo Alberti riconoscibile per le decorazioni floreali sulle maioliche di Vietri lungo il fregio del piano superiore. Sulla grande piazza si apre la massiccia struttura del Palazzo Ducale, testimonianza di quasi mille anni di storia con il suo palinsesto stratificato, eredità dei vari casati di principi e baroni che si sono succeduti. La prima fase edificativa è relativa al fortilizio medievale, al quale seguì uno sviluppo tra il XVI e il XVII secolo che ingentilì gli aspri volumi con un’ampia loggia sul lato occidentale, con i giardini pensili sul fronte meridionale che guarda la Chiesa Matrice ed edificando una nuova cappella palatina che affaccia sulla pubblica piazza; una terza fase si registra nel XVIII secolo quando vengono avviati i lavori di ristrutturazione del cortile del palazzo, realizzando un’elegante quinta barocca e uno scalone a doppia rampa da raccordo con il piano nobile, e in seguito il pregevole portale d’accesso ai giardini pensili che danno su Piazza Villani. Infine al XX secolo risalgono gli interventi di gusto eclettico del prospetto e l’aggiunta di nuovi corpi di fabbrica.
Il palazzo ducale e la prospiciente piazza sono al centro di una vicenda misteriosa a tinte noir che risale al Seicento, ai tempi dei principi Bartilotti. Per tradizione questa famiglia è accusata di aver esercitato forme tiranniche di signoria su Presicce e particolarmente crudele doveva essere stato Carlo Francesco Bartilotti, taccagno e amante del piacere e delle belle donne: si racconta che mentre era affacciato alla loggia del suo palazzo e assisteva divertito a uno spettacolo in maschera – da qui la credenza che si trattasse di Carnevale – fu ucciso da un colpo di fucile. L’assassinio è rimasto sempre una storia dalle tinte fosche, senza un certo movente né il riconoscimento del sicario a sua volta mascherato e che ha portato agli abitanti di Presicce l’appellativo di “mascarani” (mascherati, appunto).
Da Piazza del Popolo ci si può letteralmente perdersi tra vicoletti, stretti passaggi e piccole corti, imbattendosi quasi per caso nella statua del Padreterno che si erge nell’omonimo slargo, e introdursi poi nel rione Corciuli. Portiamoci su via Gramsci e qui si potrà raggiungere Casa Turrita, facilmente riconoscibile per la decorazione di facciata in bugnato a punta di diamante ed esempio di casa-torre del Cinquecento.
Girare per Presicce è un viaggio nella storia e nell’arte, suggestioni adottate dall’artista leccese Marina Mancuso che ha contribuito al recupero del centro storico con la sua pittura, riqualificando angoli abbandonati all’incuria e in degrado. Porte, serrande, cabine elettriche diventano le sue tele con figure femminili e i puttini che sembrano staccarsi dalle decorazioni delle chiese per abbellire le brutture della modernità degradata.
Non si può però fare un giro a Presicce senza scendere nelle sue profondità e non visitare un “trappeto a grotta”. Il borgo è ormai noto come città degli ipogei e dell’olio proprio per il gran numero di tali strutture di sottosuolo destinate alla lavorazione delle olive: nel 1816 si arrivano a contare 23 frantoi ipogei. Si tratta di un complesso di trappeti che si sviluppa come a creare una parallela città sotterranea, ancora in parte sconosciuta.