Punta Campanella lungo la costa degli dei

Girovagando tra suggestioni letterarie e storie di terra e di mare

Antonio Giannini

Ed infine eccomi qui a Punta Campanella, all’estrema propaggine della penisola sorrentina che come la cuspide di una lancia divide due golfi, quello di Salerno e di Napoli; atri di uno stesso cuore.
Il nostro cammino iniziato a Cetara cinque giorni fa, ci ha portato fino a questa Itaca “dove sempre si ritorna”, passando da Maiori, Ravello, Amalfi, Positano, su per le mulattiere e le vie delle ferriere, tra cascate rigogliose e vecchi mulini. Ma è qui che sento, come in rarissimi altri luoghi, di essere dentro il respiro possente della storia e del mito, di essere vicinissimo allo svelamento di un segreto che attrae ed inquieta allo stesso tempo. Come nei sogni.


In questo posto, dove il silenzio è appena lambito dal lontano garrito di un gabbiano, guardo tra la lieve foschia Capri davanti a me con i suoi faraglioni. Il panno morbido di seta del mare è rotto dal solco bianco e spumeggiante che insegue un battello, muto per la lontananza, ai bordi del quale, da ambo i lati, si apre una trama obliqua di leggere onde, a formare come una immensa spiga di grano che man mano si allarga e dilegua nel blu.
Seduto sul bordo di una vecchia torre di avvistamento guardo verso nord l’isola di Ischia e non posso fare a meno di vedere, come in una iconografia dei miei vecchi libri di scuola, le prime imbarcazioni di una flotta greca avvicinarsi a quella costa da dove tutto è iniziato.
Come si può qui non pensare ad Ulisse legato all’albero della sua nave che passa davanti a queste coste proprio qui difronte; sentire la salsedine e gli spruzzi del mare sulla pelle; sentire riecheggiare nella mente quel passo della Divina Commedia che Dante gli dedica e che il mio vecchio professore d’italiano, dopo averlo declamato, ci imponeva di imparare a memoria perché “la modernità in Omero” diceva, “si identifica col viaggio, con la conoscenza, con la scoperta dell’ignoto”. “Non c’è viaggio che sia uguale ad un altro e questa è la sua ricchezza”. Diceva proprio così il mio caro, paziente, timido, un pò schivo, professore d’italiano.
E la storia, il racconto e le fantasie si mescolano in un vorticoso viaggio interiore di cose lette e sentite, di miti arcani e storie favolose che adesso, davanti ai luoghi in cui si svolsero nella realtà storica o nelle fantasie dei racconti, mi tengono sospeso e quasi incapace di ritornare alla realtà presente.
E come posso tenere a freno la mente davanti all’immensità di questo mare tra i due golfi e non pensare e quasi vedere quella nave romana che da Capo Miseno, lì davanti, levava verso Ercolano e Pompei quel giorno fatidico quando Plinio il Vecchio esalerà i gas mortali dell’eruzione del Vesuvio, condividendo la sorte degli abitanti di quelle città.
E’ tardi e devo rientrare; ma la mente corre ancora e non può che tornare ad un pensiero, tutto il giorno latente. Non può fare a mano di andare a lui a Giacomo Leopardi alla sua ginestra difronte a Torre del Greco che, da qui, dove mi trovo, non posso vedere perché troppo addentrata nel golfo di Napoli, ma che sento così vicina nel pensiero.
Di quella ginestra “che al cielo di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola” sento l’odore dolcissimo e amaro, potente e selvaggio; quell’odore di lotta senza speranza, quell’odore di inconsolabile disperato pessimismo.
E qui adesso difronte a questa meraviglia che si para davanti ai miei occhi e che mi commuove, leggendo ad una ad una come un distillato le parole del poeta, si ripete in tutta la sua potenza il miracolo della poesia di far sentire in quel pessimismo senza soluzione e senza speranza una punta, fugace e potente come un lampo, di felicità inaspettata.
E penso al tempo che corre e tutto travolge, e questo pensiero mi fa sentire parte di questo tutto e nello stesso tempo appartenere, qui e adesso, solo a questi istanti che sto vivendo. E il passato ed il futuro hanno perso ogni significato.