Magna Via Francigena. Metafora di una storia millenaria
Girovagando tra suggestioni letterarie e storie di terra e di mare
Antonio Giannini
Io amo la fotografia in bianco e nero perché mi fa leggere meglio le forme, le linee, la luce che riflette da ogni gradazione di grigio e, ancora più importante, perché stimola la mia immaginazione.
Per questo cammino in Sicilia però ho scelto di scattare per il colore. Ho troppo spesso visto immagini di quest’isola in Bianco e Nero a cominciare da quelle di grandi fotografi come Ferdinando Scianna, Enzo Sellerio, per finire con quelle di Letizia Battaglia, e in Bianco e Nero è rimasta in me, preponderante, insieme all’immagine di un’isola fantastica, la crudezza e la drammaticità delle uccisioni per mafia.
Io ero già stato in diverse occasioni sull’isola, ma questa volta, sarà perché il viaggio che stavo compiendo era un cammino, è stato come una prima volta. Infatti, a rifletterci bene, partire per un cammino, e non quindi da semplice turista, in realtà, è sempre come partire per la prima volta. Perché ogni cammino è un unicum, un concentrato così ricco di sensazioni, da portare in sé, immancabilmente, la scoperta di qualcosa di autentico ed irripetibile; e camminare al ritmo del proprio passo tra paesi e paesaggi poco battuti e quasi dimenticati, è qualcosa che coinvolge.
Ed il paesaggio, appunto, è quello millenario della Sicilia lungo la Magna Via Francigena che da Palermo porta ad Agrigento, attraverso lo scenario primaverile dei monti Sicani, su per altipiani, valli e colline a volte sormontate da costoni rocciosi, tra il giallo della ginestra e della ferula, il mare rosso porpora della sulla ed il verde di tutte le sue gradazioni di una miriade di erbe e colture.
Palermo, dove abbiamo iniziato, certo, è una vecchia conoscenza, ma quel suo concentrato di storia, tradizioni e umanità stupisce sempre, a cominciare da quella dei nostri vecchi amici che ci hanno ospitato. Stupisce anche lo stridore tra la magnificenza dei suoi palazzi e dei suoi luoghi di culto straordinari e la prosaicità delle palazzine frutto di un’urbanizzazione selvaggia iniziata negli anni cinquanta del novecento.
Non che questa contradizione sia una prerogativa solo di Palermo, quasi tutte le grandi citta italiane ne sono state intaccate in varia misura, ma Palermo è come un libro aperto dove vedi le ferite nella carne viva di una città splendida che racconta di una storia millenaria di popoli e culture diversi che hanno lasciato i loro segni e io loro sogni. E la grande vitalità delle sue strade e dei suoi mercati, dove la vita scorre frenetica ogni giorno, sembra un invito a rimanere con i piedi per terra.
E noi i piedi li abbiamo messi per terra per percorrere questo cammino iniziato proprio qui nell’antica capitale sul Mar Tirreno, lungo la Magna via Francigena, per condurci ad Agrigento sull’altra sponda del mare che guarda all’Africa.
Come mi capita spesso quando percorro un sentiero, anche qui, ho immaginato di osservare me stesso attraverso lo sguardo di un rapace che plana in movimento elicoidale allontanandosi sempre più in alto sulla mia testa ed in questa ascensione, mentre mi vedo sempre più piccolo fino a scomparire, l’isola prende forma e grandezza fino ad apparire al centro di qualcosa che sembra un lago ma che, a ben guardare, è il Mediterraneo, e questa visione mi aiuta a capire perché questa terra è stata da sempre un crocevia e polo di attrazione di popoli venuti da ogni direzione.
Questo cammino probabilmente è il tracciato migliore per penetrare la storia di questi popoli che da Palermo, su per Monreale, inoltrandosi verso sud sull’altopiano silenzioso della Piana degli Albanesi, attraversa il centro abitato di Santa Cristina Gela e, lungo l’Alto Belice, tra ruderi antichi giunge a Corleone che sembra essere li, appollaiata su un costone roccioso con i suoi tetti rossi, le sue cento chiese, le sue cascate e la gentilezza dei suoi abitanti quasi a voler smentire e in qualche modo compensare l‘immagine pervasiva e totalizzante della mafia, e a seguire a Prizzi, piccolo borgo aggrappato a mille metri di quota ai fianchi della montagna con i suoi balconi affacciati sull’immensa campagna, per poi giungere, continuando attraverso la riserva dei monti Carcaci fino a quote di 1000 metri di altitudine a Castronovo, e poi ancora a Cammarata, San Giovanni Gemini, Sutera, Racalmuto, dove, arrivando e percorrendo la via Garibaldi si passa proprio affianco alla statua di bronzo di Sciascia immortalato sul marciapiede mentre passeggia con la sua immancabile sigaretta accesa. Siamo nella provincia agrigentina e mancano ancora due giorni di cammino che attraverso i centri abitati di Grotte e Joppolo, ci condurrà infine al mare di Agrigento.
Ci vorrebbero pagine e pagine per raccontare la bellezza e la storia di questi borghi antichi, dei segni ancora visibili lasciati dai popoli e delle dinastie che hanno abitata l’isola, in particolare quella bizantina, araba e normanna i cui riflessi qui li puoi avvertire nei vicoli silenziosi, come nella campagna maestosa e solitaria dove sembra che il tempo si sia fermato e l’apparizione di un gregge solitario col suo pastore, o il volo sospeso di un falco, sembrano immagini immutate nei secoli.
A Sutera nel Rabadh, come veniva chiamato dagli arabi il centro abitato, abbiamo dormito in un posto dove sorge una casa costruita intorno ad un blocco roccioso con interne fenditure naturali attraverso cui circolava e circola ancora l’aria proveniente dalla sommità della montagna creando, nella stagione calda, un microclima fresco e temperato in tutta la casa; ed in passato, ci spiegava il nostro ospite, durante le ore più calde, chi ci abitava lasciava l’ingresso aperto, permettendo che tale frescura si diffondesse all’esterno tra il dedalo di viuzze.
Più che il risultato dell’attività dell’uomo, questo paesaggio con i suoi borghi, a tratti dolce e solitario, aspro e sterminato, sembra essere il frutto della mano di un artista il quale però sembra volerci trasmette qualcosa che va oltre la bellezza esteriore dei luoghi. Qualcosa di antico e misterioso che senti essere nascosta da qualche parte: in un colore, un odore, uno sguardo, uno stato d’animo che cerchi di fermare e fissare nella sua essenza, ma che ti sfugge come in un continuo inseguimento senza fine. E questa tensione latente di ricerca, che come nel gioco dell’oca ti porta sempre al pensiero di partenza, si stempera infine rassegnato quando realizzi che quello che stavi cercando forse non esiste, o forse esiste ed è proprio quella stessa tensione, quel lavorio, quella ricerca interiore che da mezzo si fa fine e serve a trovare la tua collocazione tra le cose del mondo.
La conclusine ad Agrigento del nostro cammino non poteva essere più spettacolare e simbolica allo stesso tempo, perché è sembrato come fare un percorso temporale a ritroso che ci ha portato all’origine, dove tutto ha avuto inizio nella nostra storia.
Se durante il cammino infatti, a cominciare dal suo inizio nella città di Palermo, l’impressione è stata che tutto parli di popoli e grandi dinastie che si sono avvicendate, di modi diversi di concepire la vita, l’arte, l’organizzazione dello stato, qui ad Agrigento, davanti ai grandi templi greci immersi in un mare argenteo di ulivi, la mente, prima ancora che agli avvicendamenti di popoli, alle conquiste, alle religioni, alla vita pratica degli uomini, corre verso qualcosa tanto immateriale quanto potente allo stesso tempo che è il Pensiero Greco, corre a quel “tutto scorre” di Eraclito che mi è sembrata essere la metafora perfetta di questa storia e di questo cammino che abbiamo avuto il privilegio di percorrere. Perché è grazie ad esso che abbiamo potuto sentire veramente la suggestione di essere nel pieno del respiro della storia dell’uomo, lungo il quale spesso abbiamo trovato una chiesa a pochi metri di distanza da una moschea, il mosaico bizantino insieme alle grandi volute normanne, l’arco acuto con il tutto sesto, gli occhi azzurri con quelli neri. Dove abbiamo sentito veramente di poter superare il senso di ogni tipo di appartenenza a razza, nazione od etnia, se non quella di fare parte del solo genere umano, aldilà dei suoi miti, delle sue religioni, dei suoi idoli, delle sue virtù e dei suoi difetti.