Perfect Day. Una lezione di cinema o una lezione di vita?

Prima visione. Le recensioni di Massimiliano Manieri che ha visto per noi Perfect Day Il film di Wim Wenders. Interpreti: Kōji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Aoi Yamada, Yumi Asō, Sayuri Ishikawa, Tomokazu Miura, Min Tanaka Distribuzione: Lucky Red 2023, durata 123′

Massimiliano Manieri

UNA LEZIONE DI CINEMA O UNA LEZIONE DI VITA?
(meccanica di una recensione assai imparziale)
Tokyo, oggi.
La giornata tipo di un uomo addetto alle pulizie dei bagni pubblici.
Un regista conosciuto a molti ci fa un film.
Ma è solo questo che vuole farci vedere?
Andiamo dunque per gradi.


Questo è un progetto cinematografico in realtà nato da un documentario commissionato allo stesso regista dall’amministrazione di Shibuya, quartiere residenziale di Tokyo, rinomato appunto per i suoi bagni pubblici.
Mi piace pensare che ad un certo punto Wenders abbia pensato come piccolo quel contenitore documentaristico ed abbia voluto dagli più respiro, proprio poiché ispirato da più voci interiori.
Il buon Wim, da sempre regista attento ai più flebili movimenti dell’anima, pare averci regalato dunque lo spaccato umano di un essere (ed ha trovato uno splendido interprete nell’attore Kōji Yakusho) intento a vivere giornate intrise da una routine più che piatta (all’apparenza…), ma è nella cura che costui mette nelle cose, nello spirito con cui si accinge a vivere la giornata, nel suo intensissimo lato umano, la chiave di lettura.
Ma vuole solo dirci questo Wenders?
Ci ho pensato a più riprese osservando le immagini.
Sullo sfondo della storia vi è una Tokyo ordinatissima, ligia nei suoi spazi, squadrata negli schemi, anche bella architettonicamente, bagni pubblici in primis, ma il regista vira la telecamera spesso sulle sue imponenti torri di comunicazione.
Ci vuole forse dire forse qualcosa?
Il punto stridulo, nell’assenza di collante umano con il protagonista, sta nei suoi abitanti, che ci appaiono svogliati, ingrigiti, assenti di empatia, quand’anche molto trasandati aggiungerei.
Ammorbati in un vivere metropolitano che pare averli inghiottiti (e deglutiti, aggiungerei).
Circoncisi nel loro sostare sui cellulari in modo amorfo. Sono dentro la città, e sembrano quasi anche loro stessi elementi architettonici.
Anche il protagonista ne fa parte, certamente, ma in un modo assai diverso!!!
Quest’uomo guarda ancora il cielo! EVVIVA
E quando non ha un cielo, si contenta di una proiezione sulla parete.
Fotografa gli spazi per suo vezzo, con una vecchia macchina analogica.
Son fotografie in bianco e nero le sue, che seleziona accuratamente, oppure straccia, se non di suo gusto, e conserva le altre, con cura, come fa tutto con cura nella sua vita, dall’innaffiare piantine, al collezionare video, all’essere appassionato di musica, ma esclusivamente su antiquate musicassette ormai preziosissime, come forse soltanto un monaco tibetano potrebbe far con pari cura.
E lui è questo innanzitutto: un asceta estatico, nel bel mezzo di una megalopoli, a contatto con questa, ma completamente al di fuori di questa.
Nel sereno scorrere dei giorni scanditi dalle sue musiche preferite (colonna sonora magnificente, con in testa un Lou Reed senza cui questo film forse non avrebbe trovato la necessaria ispirazione), nei suoi sorrisi ampi e quieti, nel suo distacco dai beni materiali. Dappertutto intorno a lui dimora l’essenziale, e lui stesso ne è squisita essenza.
Un’unica domanda mi è sovvenuta al cospetto di questo scorrere: dov’è però l’amore nella sua vita?
Ed ho temuto che il regista volesse volontariamente vietarmi la sua vista, fintanto non ho intravisto uno sguardo triste, proprio in mezzo ai suoi sorrisi, i suoi occhi si son fatti lucidi, il labbro si è increspato in una piccola smorfia, per ritornare al sorriso un attimo dopo…
E lì ho capito che Wenders ci mostrava l’esistenza di un uomo che aveva forse chiuso con l’amore, pur conservandone un ricordo densissimo.
E ho capito anche l’intervallo criptico dei suoi sogni in quel bianco e nero sgranato.
Avevo forse colto la polpa del frutto, eppure avrei voluto avere ancora più cuore per cogliere altro, ed altro ancora.
Non ci sono voti che possano descrivere questa pellicola.
È un’opera da sentire, innanzitutto, con tutto di noi, con il cuore, con gli occhi, con i muscoli, con le ossa, persino con le cartilagini, ed avrete sempre la sensazione di non prenderla completamente, esattamente come guardando un orizzonte magnifico, i nostri occhi paiono non bastarci.
Al centro di questo universo immane, un impiegato dell’azienda Tokyo Toilet.
La sua spugna, la sua scopa, le sue chiavi, il suo rigore gentile.
Una immagine umilissima che diviene nobilissima.
Devo ancor ora deglutirlo tutto, e mi scuso per il troppo entusiasmo espresso nelle righe.
Ma mi sono appena innamorato di una pellicola…