Ercolano, la città dove il legno non bruciò

Straordinaria l’antica Hercolaneum per essere l’unico sito archeologico, tra quelli sepolti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., ad aver restituito un sorprendente patrimonio ligneo

Sara Foti Sciavaliere

Tra le città della Campania Felix che troveranno la loro tragica fine a causa della violenta eruzione del Vesuvio del 79 d.C. sicuramente le più note sono Pompei ed Ercolano. La prima è di certo in assoluto quella che fa maggiormente chiacchierare di sé con milioni di visitatori da tutto il mondo e scoperte costanti che mantengono un riflettore sempre puntato su di essa. Ercolano tuttavia non è meno interessante, anzi è piuttosto sottovalutata. Quei poco più di 4 ettari di quest’ultima, rispetto ai 44 ettari di Pompei, hanno permesso di riportare alla luce dei tesori unici non solo se usiamo come paragone Pompei ma perfino a confronto di qualunque altro sito archeologico di epoca romana. Una delle peculiarità straordinarie di Ercolano risiede nell’ingente patrimonio di oggetti in legno rinvenuti e conservati, relativi sia ad elementi strutturali che ad elementi di arredo.



24 ottobre 79 d.C. Tutto sembra tranquillo, una mattina qualunque. Una calma apparente però. Dal Vesuvio si alza infatti una colonna di fumo accompagnata da scosse di terremoto, fiamme e boati. Piovono ceneri e lapilli, e dalla vicina Pompei giungono notizie non rassicuranti. In breve tempo, la nube di fumo copre il cielo fino all’orizzonte. Non spira un alito di vento e l’aria è irrespirabile, sempre più soffocante.
Alcuni Ercolanesi scendono in spiaggia in attesa delle lance militari che avanzano in direzione della costa con l’ordine di accogliere quante più persone possibili. La spedizione di salvataggio è organizzata dall’ammiraglio Plinio che dalla sua nave osserva lo sviluppo dell’eruzione, e per la sua passione per la scienza e lo studio dei fenomeni naturali, detta le proprie considerazioni a uno scriba. Le operazioni sulla spiaggia intanto sono coordinate da un marinaio, forse un ufficiale della marina militare romana, identificabile per l’uniforme, il cinturone d’argento, la spada e il gladio. E dopo qualche ora, il gruppo di Ercolanesi sulla spiaggia è di quasi 300 persone che sperano di tentare la fuga via mare. In attesa i fuggiaschi si rifugiano all’interno delle rimesse, disposte lungo il litorale, portando con sé gli oggetti più preziosi: documenti importanti, la cassetta del denaro e quella dei gioielli, i ferri del mestieri, come nel caso di un medico.
È circa l’una di notte quando l’immensa colonna di materiale incandescente, che ha raggiunto circa i 20 chilometri di altezza, collassa, e lungo i fianchi del Vesuvio inizia a scorrere a ritmo incalzante e inesorabile il flusso piroclastico a una temperatura intorno ai 500°. E quando la nube ardente raggiunge Hercolaneum la vita della città termina all’istante.

“Molte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità. Credo sia difficile vedere qualcosa di più interessante”, così scriveva Goethe, nel suo viaggio in Italia, tra quei viaggiatori del Gran Tour che con meraviglia e curiosità esploravano la nostra penisola, tra il XVIII e il XIX secolo.

È paradossale pensare che lo stesso tragico evento che ha spezzato la vita in quelle città, cancellandole per secoli dalla geografia, allo stesso tempo ne ha permesso la conservazione. L’eruzione che nel 79 d.C. ha di fatto interrotto il flusso del tempo, consegnando alla storia un’affascinante città quasi cristallizzata nell’istante della catastrofe, e quindi la possibilità, una volta riscoperte, di restituire all’umanità un’importante testimonianza sulla civiltà romana, non solo gli edifici identificabili con chiarezza nelle loro architetture, così come accade per la vicina Pompei, ma Hercolaneum è fuori dal comune, unica tra le testimonianze del mondo romano, soprattutto perché a causa delle particolari condizioni di seppellimento ha permesso di recuperare ciò che altrove è sparito per sempre, ridotto in cenere: il legno.

E così, mentre già dai tempi dei Grand Tour i visitatori avevano l’ooportunità ammirare un’incredibile spaccato della quotidianità romana, gli storici e gli archeologici hanno potuto studiare nel loro contesto reperti che altrimenti non si sarebbero conservati, come stoffe, alimenti e, appunto, il legno. Qui di fatto, laddove ci si sarebbe atteso di trovare cenere o l’impronta degli elementi lignei, come succede per Pompei, invece il legno non è bruciato ma ha conservato forma e aspetto originari, pagando all’eruzione un tributo accettabile: la carbonizzazione. Ecco quindi che tra le strade di Ercolano siamo attratti dalla presenza di architravi, porte, tramezzi, finestre, scale, attrezzature per attività domestiche e artigianali, mentre dall’antico litorale provengono barche e numerosi oggetti legati alle attività marinare.

Il legno a Ercolano è attestato anche come supporto scrittorio, come testimoniato da otto archivi privati recuperati all’interno delle domus e costituiti da centinaia di tavolette cerate, il cui contenuto è rimasto graffito sul fondo di queste incredibili pagine di legno. Se si accede ai depositi del Parco Archeologico di Ercolano c’è da rimanere a bocca aperta, scoprendo decine di mobili di varie fogge e decorazioni, manufatti che consentono di proiettarsi idealmente nelle abitazioni degli antichi ercolanesi e immaginare quei luoghi più familiari, arredati da letti, armadi, tavoli, sgabelli, sfuggiti alla furia del vulcano e recuperati dal paziente lavoro di archeologi e restauratori che, da Amedeo Maiuri in poi, si sono succeduti nella scoperta, lo studio e la cura della città. In generale molto poco si conosce del legno come materia prima in età romana, sia per la scarsa quantità di fonti storiche disponibili sul commercio e uso di un bene dall’uso quotidiano, ma in particolar modo per la deperibilità stessa del legno, che non gli permette di sopravvivere nel tempo se non in specifiche ed eccezionali condizioni climatiche o del suolo. Pertanto il legno è tra i materiali più rari dal punto di vista archeologico. Così possiamo affermare senza dubbio che la raccolta di mobili lignei più completa per l’Italia romana è rappresentata dagli esemplari rinvenuti a Ercolano e ancora oggi conservati.

A Ercolano il legno archeologico è rappresentato da una straordinaria eterogeneità e quantità di manufatti che comprendono arredi, legno strutturale e piccoli oggetti. La particolare dinamica del seppellimento di Ercolano, per la combinazione tra gli effetti delle alte temperature dei flussi piroclastici da un lato e dall’altro l’ambiente anaerobico che ha determinato un fenomeno di conservazione assolutamente originale e privo di confronti a Pompei, restituendoci reperti organici (vegetali, stoffe, arredi e parti struttive degli edifici in legno, e ancora la barca recuperata nel 1982 sull’antica marina), ma anche e soprattutto i piani superiori degli edifici e con essi un’idea precisa dei volumi e delle tecniche di costruzione. Le testimonianze più impressionanti sono costituite dai grandi portoni d’ingresso delle nobili case che si incontrano lungo i tre cardini e i due decumani. Gli esemplari più antichi, risalenti all’epoca preromana (fino al II sec. a.C.) hanno spesso dimensioni monumentali e sono decorati da borchie e chiodi di bronzo. Per l’epoca romana (I sec. a.C. – 79 d.C.) sono documentati portoni di dimensioni più contenute con battenti lisci, ornati da pannelli rettangolari a rilievo, oppure incassati in leggero sottosquadro.

La cosiddetta Casa del Tramezzo di Legno, visitabile nel IV cardine, deve il suo nome proprio al sopravvissuto tramezzo ligneo, una sorta di porta pieghevole che scherma l’atrio verso il tablino, preservandone l’intimità: il tramezzo ha battenti sagomati forniti di anelli e di sostegni per appendere le lucerne, mentre in una della camera sul fianco dell’atrio si è conservato il letto in legno.
Osservando ancora si gli interni che gli esterni di alcune abitazioni ercolanesi è facile scorgere delle travi lignee che attraversano la muratura, si tratta dell’“opus craticium”, tecnica  a basso costo, ritenuta poco solida e facile preda delle fiamme, che a Pompei non è mai stata usata per i muri portanti, mentre viene sperimentata a Ercolano, più aperta alle innovazioni provenienti dalla vicina Neapolis.  

Agli inizi degli anni Ottanta del ’900, grazie a un’intuizione dell’allora direttore degli scavi di Ercolano Giuseppe Maggi, lo scavo, con l’asportazione degli oltre 20 metri di materiali piroclastici che avevano sepolto la città, raggiunse la sabbia vulcanica dell’arenile, confermando la posizione dell’antico litorale e portando al rinvenimento dei circa 300 corpi di Ercolanesi che, nella notte dell’eruzione, avevano cercato riparo all’interno dei robusti “fornici”, ricavati al di sotto del Santuario di Venere e della Terrazza di M.Nonio Balbo, proconsole e patrono di Ercolano, sperando nei soccorsi che giungevano dal mare. Ed è in questo contesto che, il 3 agosto del 1982, iniziò a emergere dal materiale vulcanico la chiglia di una barca rovesciata e sepolta dalla furia del flusso piroclastico. L’imbarcazione, lunga circa 9 metri e larga oltre 2 metri, era rimasta sigillata in questa coltre di fango vulcanico che si indurì rapidamente garantendo, per via dell’assenza di ossigeno, la conservazione dei legni. Oggi i resti della barca sono visibili nel Padiglione della barca, mentre un’apposita sezione dell’Antiquarium espone gli altri ritrovamenti fatti sull’antica spiaggia, entrambi adiacenti all’ingresso del percorso del Parco Archeologico per approfondire la visita di Ercolano e poter condividere lo stesso stupore di archeologici e studiosi nell’ammirare queste scoperte eccezionali. Quando il legno non bruciò, sopravvivendo alla furia del vulcano.