Antonio Spagnuolo. “La bellezza del dolore”
Da “Come un solfeggio” a “Oltre lo smeriglio”: il canto di Antonio Spagnuolo per Elena
di Franca Alaimo
Il discorso poetico che Spagnuolo tesse da molti mesi attorno al medesimo nucleo tematico della morte della donna amata (ne sono testimonianza le due sillogi pubblicate nel 2014: Come un solfeggio e Oltre lo smeriglio), sembra volto a rappresentare la struggente tensione tra l’impoverimento di concretezza che travolge l’amata nel dispiegarsi del tempo reale e l’incremento d’invadenza della sia pure impalpabile dimensione dell’altrove nell’intelaiatura dei pensieri. Sulla scena di quel teatro di bagliori, ritorni e ossessioni che è la memoria, le immagini si susseguono al di fuori di ogni ordine cronologico e cronachistico, suggerite piuttosto da atmosfere paesaggistiche, foto e piccoli oggetti, che a lei erano appartenuti, sparsi nelle stanze della casa svuotata della sua presenza fisica. Affermazione e negazione, presenza ed assenza sono gli attori di questo dramma della psiche, complesso e senza quiete, che passa attraverso la polvere nera dello smeriglio del dolore, per tentare una sua musica verbale, un ritmo di ricomposizione linguistica, attraverso prove di canto, quei solfeggi, che, come scrive Ugo Piscopo, alludono a “situazioni di assaggio e di varianza”, tra distanze ed approssimazioni al senso ultimo dell’essere e del non essere.
E, di fatto, tra l’abbandono effusivo dei testi di “Come un solfeggio” e la qualità prevalentemente lirica di quelli contenuti nella seconda parte di “Oltre lo smeriglio”, si apre nella prima parte della stessa silloge una ferita profonda, un durissimo ostacolo di natura emotiva e gnoseologica sul quale Spagnuolo sembra inciampare: le tessere del mosaico memoriale, infatti, si sparpagliano in un indecifrabile caos che si converte linguisticamente in una mescolanza di termini rari, ambigui, settoriali, o comunque attinenti al mondo concreto delle cose con altri di chiara impronta psichica, “campo lacerato” in cui l’ombra di lei “ruffa balbuzie”.
In ogni caso, la stretta relazione fra il linguaggio del subconscio e quello poetico, che come il primo procede per simboli, ha lo “scopo di una rappresentazione sub/reale della vita”, impedendo “la spirale del disfacimento”: l’eros per la parola, per il suo suono, per le figure retoriche che fanno velo e producono inattese e misteriose evocazioni, per l’armonia del tessuto testuale in sé, è il solo, infatti, a giustificare l’eternità del canto; quest’ultimo si dispiega quasi parallelamente a quella sonorità musicale dalla quale l’autore fa emergere anche la figura dell’amata, grazie alla quale può coniugare armoniosamente i segni della vita e della poesia, la fiamma dell’ eros fisico e dell’eros verbale, la conoscenza dell’altro e del sé nel tempo ed oltre il tempo.
Ho tra virgolette citato qualche frase o sintagma dall’ “Antefatto (o prefazione) dell’autore”, per evidenziare come esso non ricalchi affatto le solite visitazioni al testo, riguardanti per lo più solo l’aspetto contenutistico dello stesso, ma costituisca una breve quanto intensa dichiarazione di poetica praticabile in questo nostro tempo caratterizzato dalla crisi “non solo di linguaggio, ma di tutta una cultura politica e borghese”. Questa così acuta attenzione al problema del dire poetico serve a collocare l’evento personale su un piano di riflessione che coinvolge tutti gli scrittori, ricordando loro come la qualità del linguaggio creativo costituisca la vera cartina di tornasole del clima etico-ideologico di una società, e che, dove esso venga compromesso alle sue radici, anche il lettore perderà il diritto a concorrere “con la sua immaginazione e la sua pregnanza a dirigere l’astrazione verso le sfere della creatività”, nutrendo verso di esse quell’indifferenza che è, oggi, così palese e preoccupante.
Tra i compiti della parola poetica si colloca, dunque, anche l’indagine dell’indicibilità dell’Altro e dell’Oltre, in quanto elementi del pensiero: e, se l’urto fra le due dimensioni del contingente e del meta-contingente genera la sua deflagrazione in una miriade di dubbi e di domande, è la seconda dimensione a sovrastare la prima, allorché la fuga dalla realtà sensoriale dei morti innesti una doppia ambiguità: quella del passato che non ritorna più e che è solo frammento, bagliore, sentimento, grumo di gesti, sorrisi, colori, e quella di una realtà troppo illimite per abitare il recinto del pensiero, e che tuttavia chiede al poeta un qualche scioglimento, un abbandono, una scelta “fra l’insonnia e il timore”. Questo dialogo fra il poeta e l’amata si trasforma in una incantevole anticlimax nel testo “Talvolta” ( in Oltre le smeriglio): l’ora è quella del tramonto, la più evocatrice dello scoloramento delle cose nel buio avanzante della notte; ed il poeta enumera i verbi del suo essere solo: “attendo”, “immagino”, “non posseggo” “svanisco”. E, tuttavia, nonostante lo struggimento e lo strazio, solo raramente è dato d’imbattersi in una poesia capace di cantare con tale coerenza “la bellezza del dolore”, come scrive Ninnj Di Stefano Busà, e, mi piace aggiungere, la sua insita sacralità.