INCONFONDIBILE STILE SEGRE. Da Lisetta Carmi a Morando Morandini…l’elogio al cinema del reale
INCONFONDIBILE STILE SEGRE. Da Lisetta Carmi a Morando Morandini…l’elogio al cinema del reale
di Antonietta Fulvio
Dalle sequenze di “Lisetta Carmi un’anima in cammino” a “Je m’appelle Morando – Alfabeto Morandini”, il regista Daniele Segre regala al pubblico del Festival del Cinema Europeo due perle del genere documentario. Quel genere legato alle visioni del reale, frammenti di memoria che testimoniano un presente denso di emozioni, strappato in questo modo all’oblìo del tempo e alla dimenticanza degli uomini.
Due meravigliosi ritratti, Lisetta Carmi e Morando Morandini, che con il lungometraggio dedicato all’editore pisano Luciano Lischi, ultimo esponente della Nistri Lischi una delle più antiche case editrici d’Italia, completano, per ora, la trilogia che il regista ha dedicato ad alcuni tra i personaggi che sono la storia del nostro Paese e il cui pensiero non può che essere fonte di “nutrimento” soprattutto per i giovani. “Il film nasce dalla necessità di fermare per sempre il nostro incontro” – ha raccontato il regista che, trent’anni fa, fondò la sua casa di produzione, I Cammelli, per poter fare cinema indipendente. Una scelta difficile quanto coraggiosa ma che gli ha permesso, nonostante le tante porte chiuse, di continuare a fare il proprio lavoro con dedizione assoluta e onestà intellettuale.
Ma veniamo al documentario “Je m’appelle Morando” . Titolo emblematico che riprende la celebre battuta di Garance in “Les enfants du paradis” di Marcel Carné (1945), capolavoro della storia del cinema che Morandini ha citato tra “i film della vita”. E nei 53 minuti della proiezione si apprende non poco della vita, della sensibilità dell’uomo e del critico cinematografico che ama definirsi “un liberalsocialista alla Bobbio con la pratica del dubbio”.
Un film che nasce dall’amicizia, dalla stima e l’ammirazione profonda tra due amici, accomunati dalla passione per la settima arte. Un’amicizia profonda che si intuisce anche in assenza di dialoghi tra i due. Il regista, dietro la macchina da presa, silenziosa voce fuori campo, riprende Morando Morandini che diventa “oggetto della narrazione” ma il soggetto del film – lo ha rimarcato lo stesso Morandini – è Daniele Segre che riesce a far dire all’amico, cose mai dette prime. Come quando, nelle prime sequenze, il giornalista parla della sua balbuzie probabilmente legata ad un trauma infantile: l’aver assistito ad un violento litigio tra i suoi genitori, lui un bambino inerme davanti alla assurda violenza dei grandi.
Precise e singolari le inquadrature, anche da insoliti punti di vista come la ripresa di Morandini al di là degli scaffali colmi di libri, visione quasi surreale di una dimensione estremamente naturale per l’autore del più famoso dizionario di cinema edito da Zanichelli. Notevole il montaggio, con i passaggi mai bruschi tra i primi piani che spostano l’obiettivo dal volto ai tasti, ai martelletti della fedele e inseparabile macchina da scrivere che il giornalista utilizza per scrivere i suoi saggi, le schede dei film recensiti. E il ticchettio dei tasti, lo scorrere del rullo, fanno da colonna sonora al lungometraggio girato in due fasi di riprese diverse. La prima a Levanto, la città di Laura, l’amata moglie di Morando scomparsa alcuni anni fa e la seconda nella casa studio di Milano. In questi luoghi a lui così cari egli si racconta. Naturalmente. Ripercorre gli esordi da giornalista nella redazione del primo quotidiano cattolico comasco, “L’Ordine”, grazie al quale comincia a mantenersi e a diventare nel 1947 un professionista. Ricorda gli eventi del caso che ha dominato la sua vita. Il film scorre fluido e coinvolge lo spettatore che ha la percezione di condividere un momento esclusivo e confidenziale con il critico che ricorda la propria giovinezza, le tre importanti amicizie femminili, quando credeva che l’amore dovesse necessariamente nascere dall’amicizia, l’incontro casuale ma determinante con Laura, l’amore della vita.
Lo si segue mentre, scendendo le scale, chiude le finestre. Si attende che riveli qualcos’altro mentre sfoglia appunti o insegue pensieri, intimi e segreti, dietro le spire della sigaretta appoggiata sul posacenere. Scorrono i ricordi, i volti degli amici, uno in particolare: Gianni Brera, uomo di grande generosità al quale deve molto, anche l’aver imparato la degustazione dei vini. La narrazione interseca la memoria scandendo le lettere dell’alfabeto Morandini, lettere alle quali associa situazioni, persone, pensieri. “G come Giornalismo”. Una professione, una carriera brillante, esemplare, che gli ha consentito di coniugare le sue due più grandi passioni: i libri e il cinema. Ho fatto un lavoro che mi piace e mi ritengo fortunato, confessa. Pur prediligendo il cinema della realtà, apprezza ogni forma di espressione artistica, anche se dipende sempre dal livello di qualità. Pungente, provocatorio, Morando Morandini spiega come il buon critico debba essere “politeista” il senso di un lavoro che deve portare il pubblico a scegliere un film non solo per i divi ma anche per il regista che è l’artefice della creazione. Il successo non è mai scontato, anche il cast più autorevole non evita il flop se diretto male. “In un film ci devono essere almeno due o tre momenti in cui si riesce a far uscire quello che un uomo ha dentro”.
E non risparmia le critiche a quei registi che avrebbero fatto meglio a non esordire.
Il riferimento è “alla sua battaglia contro il cinema d’autore inteso all’italiana, quello che ha permesso dagli anni Sessanta in poi a molti registi esordienti di realizzare con i soldi pubblici film che saranno anche d’autore ma di pessimi autori”. La sua coerenza gli è valsa due querele, ma non ha mai messo briglie al suo pensiero, nemmeno nelle ultime sequenze quando nel giardino della casa di Laura, a Levanto, indugia, riflette ad alta voce sulla morte. Il fruscio delle foglie sembra quasi accompagnare quelle considerazioni dette a caldo, “la morte non può fare paura in fondo, perché fa parte della vita, ne è in qualche modo il compimento” ma una cosa sì, gli fa paura, perdere la lucidità, non arrivare all’appuntamento nel pieno possesso delle facoltà mentali. Paradossalmente – dice – vorrei poter star bene prima di morire, come l’amico Filippo Sacchi che prima di andarsene chiese un bicchiere di vino.
E davanti ad un calice di vino rosso, nell’incontro seguito alla proiezione nell’enoteca “All’ombra dl barocco” Morando Morandini più che parlare del “Morandini delle donne”, il libro scritto a quattro mani con il nipote Morando Morandini junior e prossimo alla seconda edizione che verrà integrato da due o tre mancanze, ha focalizzato temi cruciali con la sua incursione sulla visione politica attuale. “Sono convinto di vivere in un paese governato da una Destra capace di tutto e da una Sinistra buona a niente nella sua continua rincorsa ai voti del Centro”. Non ha nascosto la sua rabbia, di quando all’estero ridono di quanto accade in Italia. “Fanno male a ridere, anche Mussolini e Hitler andarono a potere con un terzo dei voti e con elezioni regolari”. Un’analisi precisa. Inquietante. Quale futuro si delinea per un paese dove “non conta tanto la conoscenza delle cose quanto le conoscenze ovvero le raccomandazioni”? Lo scenario attuale non lascia sperare niente di buono, basti pensare alla considerazione che oggi nel nostro paese ha la cultura, “considerata qualcosa di inutile e dannosa alla legge del profitto, qualcosa di esterno a quello che nasce e si chiude entro i confini televisivi. L’arte, gli istituti storici, gli archivi, le biblioteche, i teatri, i cinema non sono considerati utili perché producono pensieri e non voti.”
SCHEDA TECNICA
ITALIA
JE M’APPELLE MORANDO – ALFABETO MORANDINI F
2010 – HDV – colore – 53’
Regia Direction: Daniele Segre
Sceneggiatura Screenplay: Daniele Segre
Fotografia Photography: Emanuele Segre
Montaggio Editing: Daniele Segre
Postproduzione Postproduction: Matteo Passerini, Maria Teresa Soldani
Produzione Production: I Cammelli, Via Cantalupo 11, 10141 Torino, Tel. 011 5695620, Fax. 011 5695619, icammelli.torino@gmail.com
SINOSSI
Girato tra il 2004 e il 2010 a Levanto e a Milano, Je m’appelle Morando – Alfabeto Morandini è un gioco intellettuale tra due amici che condividono la passione per il cinema e ne hanno fatto un lavoro per la vita. Daniele Segre ritrae Morando Morandini nei luoghi a lui più familiari, nel silenzio dello studio di Milano e del giardino di Levanto – immerso nella carta e nei libri – e tra le strade della cittadina ligure, dove il critico scambia battute e opinioni con l’amico regista. A fare da contrappunto al racconto filmico, il suono della sua vecchia macchina da scrivere, inseparabile strumento del suo lavoro di fronte a cui si “isola” dal resto del mondo per concentrarsi esclusivamente sul proprio pensiero e quindi scrivere con una passione, una precisione e una scrupolosità da un artigiano orefice. Il tutto sempre in nome di una scrittura densa e sintetica in cui ogni parola ha un peso specifico e un ruolo cruciale. Le lettere dell’alfabeto aprono varchi attraverso cui Morandini racconta la sua storia di critico e giornalista cinematografico, le amicizie, i suoi punti di vista sul cinema e la politica e più di tutto l’amore della sua vita, la moglie Laura. Il critico gioca anche con i decenni cinematografici, scegliendo per ciascuno un solo film, quasi come se stesse sfogliando le pagine de “ilMorandini”, il suo Dizionario dei Film edito da Zanichelli. Tra i titoli scelti non può assolutamente mancare Les enfants du paradis (1945) di Marcel Carnè, la cui celebre battuta della protagonista “Je m’appelle Garance” diventa motivo per giocare nuovamente con le parole e identificarsi subito in un’idea di cinema autoriale, romantica e rigorosa.
NOTA DI REGIA
Innanzitutto Morando Morandini è mio amico, uno dei pochi. Ci siamo conosciuti, apprezzati e stimati quando abbiamo co-diretto insieme ad Antonio Costa il festival del cinema indipendente di Bellaria (2002/2005); un’esperienza atipica e straordinaria che ci ha fatto vivere grandi momenti di incontro e riflessione sul cinema, sulla vita e sull’amicizia. Con Morando abbiamo continuato a frequentarci con il telefono, le cartoline e le poesie; poesie nate d’impulso con la rima improvvisata; simpatico intermezzo adolescenziale per fermare nostri ricordi vissuti insieme con serenità o meno, ma forti di un rapporto di leale stima e rispetto. Fare qualcosa con e su di lui lo consideravo necessario per le nostre vite che, grazie al cinema degli altri ma anche al mio, si sono incontrate e serenamente si sono vissute nel rispetto delle reciproche diversità: un critico e un regista entrambi di frontiera.