Brexit. Ora zero
Da Capodanno la Gran Bretagna sarà fuori dall’Unione Europea.
Walter Cerfeda
Cosa cambia?
E alla fine l’accordo è arrivato.
Nei prossimi giorni su di esso si pronuncerà il Parlamento inglese, mentre nel corso del mese di gennaio, lo farà quello europeo. In ogni caso da Capodanno, la Gran Bretagna sarà definitivamente fuori dall’Unione Europea, concludendo quel ciclo che era iniziato quattro anni fa’, con il referendum del giugno 2016.
Ma al di là dei primi prevedibili, scontati e come al solito un po’ eccitati commenti di Boris Johnson, vale la pena cercare di capire cosa contiene l’accordo siglato dopo un’estenuante trattativa durata più di due anni.
E forse ancora di più provare a capire perché il premier britannico dopo aver a lungo propugnato il “No deal” o in subordine la cd. “hard Brexit”, alla fine abbia firmato un accordo che, testo alla mano, è pressoché identico anche nella quantità (525 pagine) oltre che nei contenuti, a quello siglato da Theresa May nel 2018. Accordo quello però, al quale si era duramente opposto, provocando la fine anticipata della legislatura e le nuove elezioni dell’ottobre 2019 poi stravinte, con il proposito di cancellare proprio quell’accordo.
Infatti il merito dell’intesa non è in sostanza cambiato.
Su tutti i tre punti sollevati dalla Gran Bretagna come condizione per evitare il No deal, ovvero i diritti di pesca, le regole del mercato unico e la governance per la gestione futura dell’accordo, i punti di mediazione appaiono tutti e tre assolutamente ragionevoli e quindi a portata di mano anche prima. Ma resta nella memoria di tutti che soltanto poco più di un mese fa, a metà ottobre, Boris Johnson aveva formalmente disconosciuto l’accordo di recesso firmato da Theresa May e annunciato il No Deal, provocando una durissima reazione della Commissione Europea che quell’accordo aveva invece approvato sia in Parlamento che nel Consiglio.
Invece poi, alla fine, la montagna ha di fatto partorito il classico topolino.
Vediamo il perché.
Sui diritti di pesca nel Mare del Nord, Johnson subentrato personalmente nelle ultime ore di trattative al suo negoziatore Frost cui aveva dato un mandato rigidissimo, ha semplicemente firmato un testo che afferma che da qui e per i prossimi sei anni, sulla pesca in quel mare non succede assolutamente nulla, tranne il rivedersi nel 2027 per fare una verifica.
Ovviamente, per questo, l’intesa ha sollevato la furibonda reazione scozzese, che è tornata a minacciare un referendum per una Scotland exit, ma non dall’Ue, bensì dalla Gran Bretagna.
Sulle regole del mercato unico e dei suoi standard da non violare ( il cd. Level playng field) l’accordo conferma che nessuna regola e principio possa essere né violato né cambiato.
Va così in archivio definitivamente anche la suggestione che tanto aveva affascinato gli elettori britannici quella per cui con la Brexit “ torneremo padroni a casa nostra”, cioè potremo adottare leggi e norme in deroga ai vincoli europei, compresi quelli in materia di aiuti di Stato o di criteri ambientali o, ancora peggio, sugli Ogm, per i fitofarmaci o in materia sanitaria. Sapendo bene che ogni distorsione di quelle regole avrebbe significato nei confronti dell’Europa, la pratica di una concorrenza sleale e di un dumping commerciale ed industriale.
Per questo l’Unione non ha arretrato mai, su questo punto e il premier britannico ha dovuto alla fine firmare un testo che recita che “nessuna azione da parte britannica potrà essere fatta che possa arrecare danni alla libera e leale concorrenza nel pieno rispetto delle norme comunitarie che disciplinano il mercato unico europeo”.
Ed anche sulla governance futura dell’accordo si conviene, molto ragionevolmente, che in caso di divergenze sarà la procedura di un arbitrato quella a cui sarà affidata l’autentica interpretazione dei testi. Né più né meno di come in tanti contratti di lavoro, anche nel nostro piccolo, da molti anni si é disciplinata l’insorgenza di eventuali controversie interpretative.
Dunque tanto rumore per nulla?
Possibile che tutto lo strappo con l’Europa sia stato per portare a casa lo scalpo dell’Erasmus o per far esibire un passaporto sia ai cittadini europei che si recano in Inghilterra come a quelli inglesi che vogliono venire in Europa?
Ed allora perché?
Allora la verità è che, per capire cosa c’è dietro e dentro questo accordo, bisogna passare dalle ragioni di tecnica negoziale a quelle più squisitamente di natura economica e di natura politica.
Quelle di natura economica sono in realtà molto semplici e note da tempo.
Lungo tutti questi quattro anni dal referendum ad oggi, la situazione economica della Gran Bretagna, al netto delle conseguenze del Covid, si è continuamente e lungamente deteriorata ed a poco sono valse le contromisure per cercare di arginarla. Anche la svalutazione ripetuta della sterlina per cercare di rilanciare le esportazioni non ha ottenuto, nei fatti, alcun effetto apprezzabile. Basti solo pensare che, in questo lasso di tempo, la sterlina è stata svalutata più del 20%, passando da 0,70 centesimi di sterlina per un euro a novanta, ma senza alcun risultato.
E questo perché oggi nel mondo, gli scambi avvengono solo tra grandi aree commerciali e grandi volumi. E sono i grandi volumi che permettono i grandi fatturati che, a loro volta, sono la condizione per tenere alto il saggio degli investimenti con le ricadute sociali in termini di occupazione. Fuori da questa realtà e con i piccoli volumi nazionali su scala mondiale, tutto diventa soltanto un’illusione ottica.
Non ci voleva un genio per comprenderlo. Bastava dare un’occhiata semplicemente alla bilancia commerciale inglese per capirlo.
La Gran Bretagna esporta il 43% delle proprie merci nell’Unione europea. Quindi quasi la metà della produzione della ricchezza del Regno Unito, dipende esclusivamente dalla sua relazione con l’Europa.
E non vale il contrario, perché invece l’Unione esporta in media in Gran Bretagna appena il 6,5%, con un picco solo in Olanda al 10%. L’Italia si colloca al 5%.
Ciò vuol paradossalmente dire che l’Europa poteva e può fare a meno, sul piano economico, della Gran Bretagna ma non viceversa.
Questa è la ragione per cui il negoziatore europeo Michel Barnier ha sempre saputo di avere lui in mano il coltello dalla parte del manico e che, per questo, la ricerca di un accordo era senz’altro utile ma non a tutti i costi.
Ciò invece non è mai valso per gli inglesi.
Peraltro proprio dal momento in cui Boris Johnson, dopo aver vinto le elezioni, aveva apertamente perseguito il No Deal, era contemporaneamente iniziato lo stillicidio delle grandi imprese che avevano deciso una Brexit al contrario, ovvero di chiudere i battenti in Gran Bretagna per riaprirli in Europa.
D’altronde specie le grandi multinazionali non avevano certo scelto di investire aprendo stabilimenti nel Regno Unito, con il solo scopo di puntare a quel mercato interno. Bensì per poter da lì produrre e penetrare nel grande e ricco mercato unico europeo.
Per questo la prospettiva di una rottura con l’Europa con le loro merci che sarebbero state sottoposte a dazi, avevano portato semplicemente al cambiamento dei piani industriali.
Dopo le elezioni di poco più di un anno fa, nell’ottobre 2019, e la schiacciante vittoria di Boris Johnson, la giapponese Panasonic, leader mondiale nell’elettronica ha deciso di spostare la propria sede e le produzioni in Olanda, ad Amsterdam.
La prima azienda per fatturato inglese, l’Unilever con capitale misto inglese e olandese, si è spostata a Rotterdam.
La Sony l’ha seguita, lasciando solo due reparti in Inghilterra, trasferendosi anch’essa in Europa e cambiando anche ragione sociale, ribattezzandosi Sony Europe.
Nel settore degli autoveicoli rispetto al quale, l’Unione aveva prospettato di sottoporre, in futuro, i prodotti inglesi al dazio previsto dal Wto del 10%, la Honda ha chiuso la fabbrica a Swindon e riaperto in Germania ed altrettanto ha deciso di fare la Nissan che ha spostato ad Anversa la produzione della sua auto di punta, il fuoristrada X Trail, svuotando di fatto la fabbrica di Sunderland con il licenziamento di più di mille lavoratori.
E poi quando da ultimo anche la Ford e la Jaguar Land Rover che vendono in Europa oltre il 70% dei loro autoveicoli, hanno annunciato di fare altrettanto, la CBI, ovvero la Confindustria britannica, ha mandato un ultimatum a Downing street di smetterla di giocare con il fuoco con l’Ue e subito dopo il potente Cancelliere dello Scacchiere Sajid Javid, ha pubblicamente ricordato al suo Premier che il fallimento di un’intesa con l’Ue avrebbe portato conseguenze ancora più drammatiche di quelle prodotte dallo stesso Covid 19 con il rischio concreto di far precipitare il Regno Unito in una recessione senza fine.
Peraltro tutto ciò non solo è accaduto nell’industria, ma anche nella finanza, in termini ancora peggiori.
La Barclays Bank, la JP Morgan, la Bank of America già dal 2018 avevano lasciato Londra spostando sede e personale a Francoforte, seguita dalle principali banche d’investimento giapponesi che invece da Londra si sono spostate a Amsterdam come la Nomura, la Mitsubishi UFJ e la Mihuzo Financial Group, svuotando di fatto gran parte del volume di affari della City.
D’altronde i grandi centri finanziari del mondo, per loro stessa natura, stanno sempre accanto là dove la ricchezza e i grandi affari si producono, non in luoghi che da essi decidono invece di isolarsi.
E la situazione su questo punto si è fatta per Londra talmente grave, che, al di là della pressione inglese, l’Ue ha deciso di tenere duro e di stralciare dall’accordo proprio quella dei servizi finanziari, perché la gran parte dei buoi quella stalla l’avevano ormai deciso di lasciarla.
Per tutto questo Boris Johnson non aveva alcuna alternativa se non quella di firmare un accordo con l’Ue.
Da ultimo la goccia che ha definitivamente fatto traboccare il vaso è stato il risultato delle elezioni americane e la sconfitta di Trump.
Trump, con la sua prospettiva di un mondo con un futuro improntato sul binomio nazionalismo e protezionismo, aveva rappresentato, in questi anni, non solo la sponda più forte alla Brexit, ma anche la prospettiva per la Gran Bretagna di poter far parte di un’altra grande alleanza economica e commerciale, alternativa a quella europea.
Trump per quattro anni non ha fatto altro che cercare di indebolire e di dividere, fomentando nazionalismi di tutte le risme anche i più squallidi e inqualificabili, assumendo proprio l’emblema della Brexit come l’esempio e il modello da seguire.
Ma dopo il 3 novembre di tutto questo non è rimasto più niente. Nemmeno Trump. Quella prospettiva infatti è finita e con sé ha generato tutte le conseguenze politiche di cui la marcia indietro di Johnson non ne è che un tassello coerente. Il mondo trascinato in una recessione epocale dalla pandemia, già nel 2020 infatti ha generato un nuovo paradigma e una nuova prospettiva economica che ha prodotto il cambiamento dello stesso funzionamento del commercio mondiale.
Ovvero che dalla recessione si esce solo trovando un nuovo equilibrio tra tutti i grandi centri della produzione della ricchezza.
Perciò, in questa nuova fase in atto della vita economica del mondo, la globalizzazione si è regionalizzata.
E proprio per questo è naufragata la ragione e la prospettiva stessa della Brexit destinando la Gran Bretagna, che pure sognava di poter finalmente navigare in mare aperto, invece di doverlo fare molto sottocosta, il più vicino possibile cioè, alle coste europee, per non essere travolta dai nuovi marosi.
Ecco perché, alla fine l’accordo è un buon e ragionevole accordo.
È un buon accordo perché è semplicemente un accordo di libero scambio, così come l’Europa ha già con altri Stati come la Norvegia, l’Islanda con l’Efta o la Svizzera, su base bilaterale.
Serviva proprio la spettacolarizzazione di un referendum con tutto il sovraccarico ideologico che ne è derivato per giungere poi ad un’intesa che di fatto tutto cambia per non cambiare quasi niente?
Per l’Unione europea la separazione resta certo dolorosa, ma, disciplinata in questo modo, è anche vero che i rischi sono stati ridotti al minimo, mentre ne restano chiari i vantaggi.
I vantaggi dell’impegno ad un lavoro comune sancito nell’intesa, sul delicato terreno della sicurezza e dell’intelligence contro un terrorismo che di qua e aldilà della Manica resta sfuggente ed insidioso e non perde occasioni disperate per manifestarsi.
Il vantaggio di un altro lavoro comune, anche esso ribadito nell’accordo, sul terreno della ricerca e della prevenzione sanitaria, campo in cui il Regno Unito tocca valori di assoluta eccellenza come dimostra il vaccino ormai prossimo di Astrazeneca, così come le capacità di ricerca epidemiologica che ha portato a scoprire per primi e ad avvertire l’Europa intera della recente mutazione del virus Covid19 e della sua maggiore contagiosità; così come la preziosa attività farmaceutica della Glaxo, proprio nel momento in cui la tedesca Bayer aveva invece delocalizzato in Cina la propria produzione farmaceutica e per questo ora impegnata ad un affannoso reshoring.
Ma resta ancora di più il vantaggio di veder sgonfiarsi la più pericolosa bolla sovranista, davanti all’uscio di casa.
D’altronde in questi mesi davvero tutto è cambiato.
L’Europa invece di disfarsi sotto il maglio dei colpi trumpisti e della Brexit, si è invece più unita e più rafforzata ed è alla vigilia di utilizzare una mole gigantesca di risorse comuni per rilanciare la propria crescita.
Ha anche ritrovato negli Stati Uniti di Biden una sponda democratica con cui operare per riorganizzare un nuovo ciclo di ordine mondiale, a partire dal rispetto delle regole e dell’ambiente. Cioè esattamente l’opposto di quel vicolo cieco in cui aveva portato il mondo la strategia trumpiana e dei suoi epigoni.
È proprio vero che il 2020 in fondo è la rivincita sul 2016, dove sembrava che un altro ciclo politico si fosse invece radicato e per un lungo tratto di tempo.
Ora è iniziato davvero un tempo nuovo.
A Boris Johnson, anche per questo, sarebbe sbagliato chiedere abiure.
Ciò che veramente conta è che alla fine, il Regno Unito resta vicino all’Europa e l’Europa al Regno Unito, al quale l’Ue non ha mai sbattuto la porta in faccia, lasciandola sempre socchiusa.
Poi vedremo dove questo tempo nuovo condurrà il mondo.
Per intanto accontentiamoci di vedere, sotto i nostri occhi, come alla recessione dell’economia non abbia corrisposto, come per il passato, la recessione della democrazia.
Anzi dall’Europa agli Stati Uniti, è alla democrazia che si chiede ora di portarci fuori dalla crisi e di assicurare il futuro.
E se ciò essa sarà capace di fare, anche le scelte democratiche del 2016 potrebbero essere ribaltate.
Negli Stati Uniti è già avvenuto, perché allora disperare che, la prossima volta, ciò non possa avvenire anche nel Regno Unito?