The Magic Eye

Chi guarda Chi

I trentanove+uno di Malevich (nella foto Rino Barillari, Roma 2012)

 

di Francesco Pasca

Lecce ormai da tempo si anima di mostre, di rassegne, di presentazioni e rappresentazioni, seguire il loro andare così incalzante è spesso un affanno, condividere non sempre è un buon segno assimilabile come messaggio. Chi guarda, sia per interesse o per assecondare la vetrina di turno, non sempre riceve quello che normalmente è definito con il nome di comunicazione, nel peggiore dei casi, spesso, riceve una scorretta psicologia del “piacere” e basta. Non è di casi così frequenti che mi voglio occupare, ma di quelli più rari e di riflessione. Per questo è necessario oltrepassare la nostra soglia di attenzione il cui valore estetico, fortunatamente, non è nullo. È di questi giorni, di domenica 15 aprile, il trovarsi alle ex Officine Cantelmo di Lecce e degustare, in un ambiente sobrio, la rassegna fotografica curata da Alessandra de Donatis di FotoscuolaLecce con la presenza di Uliano Lucas. Trentanove+uno ritratti fotografici dove la fotografia è testimonianza, corredo di cronaca di un happening. Lasciatemi dire che la mostra in sé è il risultato, è la fine di un percorso compiuto e da compiere, è iter accompagnato da un impegno, da una motivazione: «Ti guardo, amico caro, attraverso il mio pezzo di vetro; e ti chiedo di frapporre, tra l´immagine che hai di te e l´immagine che avrò di te, quest´altro pezzo di vetro affinché ti possa servire come il bracciolo della sedia, il ventaglio o il libro, o la corona del rosario o la sciabola … Pertanto, non barare ma gioca come se fossi in palcoscenico e con il tuo stesso strumento e dimmi, se lo vuoi, che sei un fotografo perché ho bisogno di capirlo, davvero bisogno … » (ho trovato questo virgolettato a firma Pippo Pappalardo e ho pensato di far partire il mio iter) Quindi, capita di guardare, capita di essere guardato, guardati. Non sempre si ottiene la visione sperata da entrambi o dai tutti che si avviano nei processi sensibili della luce, è nella logica naturale delle cose di questo mondo. Ho guardato anch’io, questa volta da vero ed unico spettatore solitario nella mia perenne divagazione del reale. Ho avuto anch’io l’esperienza dell’occhio magico (The magic eye), ma con altra necessità, lontano dalla possibile contaminazione di una guida indispensabile per muovermi nell’universo dei pensieri dove i prodotti creativi divengono fatti creativi.

Mi sono tenuto lontano anche dalle nebulose emotive, immerso, di contro, nella più semplice natura di un qualsiasi piacere poetico. L’inizio del mio guardare così è nato. Di fatto me lo sono appuntato e, il “chi guarda chi” è andato a coincidere con quanto era l’incipit della mostra, con quanto ero andato a gustare con quel piacere poetico. Maurizio Lupi mi ha soccorso con le prime parole del suo testo introduttivo per le illustrazioni di (THE MAGIC EYE – IlRaggioVerde edizioni). “La serialità ricorsiva …”, il neretto introduttivo, è diventato la chiave del ciò che ora scrivo. Chi è Knulp Malevich? Risposta: è una “lente di Fresnel” o un qualsiasi altro piano da far diventare “percorso”, è il prodotto trasparente che si sottopone ad un altro prodotto, è l’azione ricorsiva di una visione, appunto, è quello dello starsi a guardare attraverso. Non è lo specchio.

L’azione così manipolata è divenuta biunivoca, diviene  lo stesso Knulp Malevich  che, dell’azione, ne produrrà l’atto critico obbligando colui che viene ritratto a diventare egli stesso osservatore e critico. È l’altro. Diventa l’alter e l’ego dello stesso Malevich e, quel doppio punto di vista, è dell´osservatore costretto ad assumere, di sé,  il proprio oltre, quello della sua stessa e normale immagine pubblica resa deforme e diversamente osservata. Per noi che siamo “i normali e non gli straordinari osservatori”, per noi visitatori della sua mostra, la domanda può andare ad escogitare altre vie o andare a pensare: “Ciò avverrà indistintamente anche se ad essere osservati diventino gli altri, cioè i quanti, i comuni, i normalmente al di fuori della critica o i lontani dai compromessi di qualsiasi altra figura pubblica?”

Alla prima la seconda delle domande: “Perché fotografare i fotografi?” Premetto che l’azione dell’artista come prodotto d’Arte, sebbene dai critici è veduta come manna dal cielo e come tale i primi a cibarsene e a lasciare spesso digiuni gli altri con teorie spesso le più strampalate e lontane da chi non le ha pensate, non ha bisogno né di giustificazioni, né di inopportune spiegazioni. Per un me spettatore è il lasciare la visone e anche la sensazione, fortunatamente, strettamente personale e riconducibile al proprio mondo visivo ed emozionale anche se spesso affiancato da leggi la cui visione è l’identica delle leggi psichiche manipolabili. Della prima domanda mi è lecito pensare all’uso del diaframma, della separazione che altera la visione e come tale induce a “liberare”. Nel caso di una banale “normalità”, di contro, induce, forse, alla “separazione” per poi rovesciare nuovamente il risultato e, iniziare ancora, e poi ancora in un ipotetico inseguire.

Della seconda voglio anch’io l’azzardo della manipolazione ed il confronto. Chissà quanto di pubblico e di privato riuscirei a far nascondere. Mi chiedo da non fotografo come potrei far guardare attraverso una lente, sia essa di Fresnell o di una qualsivoglia macroscopia o di un’altra magia, il mio “simile”. Chissà se uscirei dall’inghippo e trovarmi con tante rassegne e tante partecipazioni in meno e magari con quella “discussa”, dai critici, la cui soglia di attenzione e il valore estetico pare sia perso. Fortunatamente, “The magic eye” mi ha soccorso. È stata una mostra da “guardare”. Dimenticavo. Perché: “Trentanove+uno”?

A qualcuno dei quaranta, certamente, Knulp Malevich, da buon fotografo, avrà rubato l’anima.