Antonio De Luca (scolpire il suono)

Si può scolpire il suono?

Ovvero viaggio fra le vibrazioni di un canto appena svegliatosi dall’inanimato

(nello studio di Antonio De Luca)

 

di Francesco Pasca

 

In una domenica dal clima di un appena strana primavera del 2012, ma con i colori già affermati dai verdi brillanti, dai rossi del papavero, dal giallo o dal bianco delle pratoline-margheritine o di altre asteracee dai caldi colori, sono stato nei luoghi della pietra sonora. Gli sperati menhir si sono lasciati nuovamente “riscrivere” dall’occasionale di un suono. Quel vibrare può essere stato prodotto dalla mia o sua favorevole predisposizione all’ascolto o dal generarsi.
Qualunque sia stato il mio o il loro silenzio nulla può avermi indotto a non assecondare il dettato da quel suono. Nessun capriccio di vento a me contrario ha impedito di capire il perché ed il come in quel Luogo avveniva, anzi, con forza ed idea ne ho tratto ulteriore beneficio d’ascolto. Mi son trovato come Benigni e Troisi in una nuova avventura da: “non ci resta che piangere”, (di gioia) e catapultato in altro tempo nelle campagne di Galugnano di Lecce a riscrivere “la lettera a Savonarola”. Sono giunto al seguito di un giovane Spaniel Breton saltellante e da Maurizio Nocera che ci guidava. Sono giunto dapprima nei pressi della chiesetta della Madonna della Neve, poco più in là il laboratorio dei suoni di Antonio De Luca, dello scultore sonoro. Sono giunto con gli amici esploratori alla ricerca di scritture nascoste.
Ho sostato, per il tempo di un veloce osservare, nella piccola costruzione medievale fortemente rimaneggiata ed ampliata dell’antica S. Maria de li Pisanei. Ho ravvisato le vistose cicatrici arrecate. L’ho percorsa nei tre ambienti così come succedutesi nel tempo. Particolare è stato il mio sostare nell’ambiente di tardo stile romanico dall’ormai scomposta lettura, dalla cancellazione persino di un porticato. L’irreparabile l’ho descritto mentalmente, l’ho ravvisato e non solo come danno dei nostri giorni, ma di quanto già voluto anche nel cinquecento.
A pelle si è sentita ed è stata palese l’esigenza di quell’inutile distruggere e del non saper, poi, rinnovare. S’avverte tuttora e permane la frenesia nel non saper guardare e fare. Persino l’altare ha avuto la sua peregrinazione oscurandone le immagini o evidenziandole con altrettanto occultabile e annullando l’evidenza di quanto fu del XV secolo e di quanto altri ancora nel seicento distrussero per dar luogo ad altre rappresentazioni, ad altri “nuovi” santi. san Francesco da Paola e sant’Antonio da Padova avrebbero desiderato altre rappresentazioni ed onorificenze.
Non è stato un bel guardare, non sempre rimaneggiare è portare il nuovo che è sempre il vecchio non più saputo descrivere né sacralizzare.
Lasciato l’angolo di un non perdono ho proseguito, abbiamo proseguito e chi ha saputo ascoltare e chiedere, tra i rumori, può aver trovato la vibrazione più vicina al proprio cantare.
Chi ha saputo farsi incantare dal brulichio delle note ha avvicinato l’orecchio e con la parola ne fatto sua l’incisone.
L’astratta superficie del nulla, che è l’apparente vuoto di uno spazio si è per un istante confuso con il digitale reclamato da uno strumento inutile per l’occasione, ha fatto perdere per un attimo il significato, non sì è vivificato e non ha potuto creare nuovo spazio né sonorità.
L’uomo se è “puro” ed è curioso, se è attento e ne sa assecondare l’inatteso risveglio della materia, dell’intimità intrinseca che lo muta, non si lascia incantare dal superfluo.
L’espressione dichiarata può avere nuova provenienza, può giungergli da qualsiasi inanimato se diventa parola.
Come in ogni cosa dal sacro sapore quotidiano, in un incontro, si può essere attori e non protagonisti, ascoltatori e non ascoltati, predatori e al contempo non essere predati da qualsivoglia arroganza. Si variano e s’avvicendano nel sempre le emozioni umane, come i suoni di quegli incontri.
Con Antonio De Luca, fortunatamente, si hanno sapori che possono persino indurti a dialogare e essere dialoganti, a partecipare ed essere coinvolti e non maldestramente distratti e muti.
Fortunatamente c’è chi sa ascoltare e far ascoltare le voci dei grandi menhir, delle pietre del tempo o dei legni più antichi o degli arrugginiti ferri dai nobilitati rumori.
Chi sa accarezzare e fa accarezzare l’ascolto sa della trasparente fragilità del cristallo o della fredda superficie di una lamina contorta. Chi non sa di essere fastidiosissimo vento sa intrufolarsi come vento che non accarezza, ma il vento ha sapore di mani, di mani che ne lucidano la superficie o che al tocco scalfiscono altre docili rocce, altri cristalli, altri metalli, altri legni, l’altro che è il tant’altro da far risvegliare e ascoltare. Antonio sa far assurgere a strumento che canta con voce umana è dichiararlo scultura sonora da assoggettare al tuo tempo per il tuo “vibrazionale”.
Dare, condurre in un forzato attraverso di amplificazioni tubolari che modificano la tua esistenza acustica e ambientale attraverso sinusoidi di onde pressate. Tutto questo per diventare strumento musicale, rigenerare il costruito artigianalmente e avvicendarlo nel trovato di un remake povero e ricco di grande estensione armonica e di egregia manifattura. La precisione è nell’emesso e non nel proporzionato adattato. Tutto può essere dato e dimostrato dalla progettazione “naif” e da un’altrettanta  rigorosa conoscenza di leggi, di armonie nascoste e ritrovate nella fisica acustica.
Lì, il rappresentato digitale è stato il fuori tempo, è stato il fuori luogo perché fuori dalla logica creativa che si auto costruiva nell’occasionale.
Era la parola, il gesto, era l’immagine di un fare, era la stessa scultura sonora e, questa, si costruiva e accordava nel suo insieme.
Non sono sufficienti le somme delle note, né il rumore di una qualsiasi campana o batacchio, ma è il lavoro certosino dell’acqua o l’accogliente vibrazione di un’amplificazione guidata. Il sonoro è la grande precisione del e nel tempo nonché il suo arco per ottenere l’armonia calibrata.
Si semina ed è semina di anni di ricerche sensoriali sottili, di supposti e supporti di capacità di ascolto interiore.

Oggi, ho casualmente incontrato, sono stato il materiale inerte per le campagne di Galugnano e con il sonoro di Antonio ho ricordato un altro Artista, Pinuccio Sciola, colui che, appena un decennio fa, ho avuto la fortuna di ascoltare e che mi portò ad ascoltare la gigantesca Pietra Sonora per la Città della Musica a Roma, per un’altra progettualità, per Renzo Piano. Ho riascoltato in Antonio De Luca anche le opere del 2005 dell’artista sardo, quelle delle sette pietre che verranno poi collocate nello scalo internazionale dell’Aeroporto di Fiumicino e per la mostra dal nome leggero “La Poesia e la Pietra”.
Ho riascoltato anche la fragilità sonora di Alexander Colder. Numerose in quest’epoca sono le fonti sonore, sono le ispirazione per altri artisti e per altrettanti musicisti e compositori. La materia quindi può cantare. Essa può farlo.
I surrogati tecnologici o gli strumenti anche se buoni o ottimi strumenti hanno un solo compito far bene le cose, ma non potranno mai diventare suonatori, né farsi ascoltare da altri strumenti. Meglio zittire il superfluo con le parole di altri suoni.
Nel Luogo dove il sole tramonta fra i menhir, vi è chi è si preposto alla guardia sonora di quei luoghi, è il destino parallelo dovuto alle sue pietre.

È l’equilibrio ricercato in proporzione al suono che vorrà ottenere il fonoforo Antonio De Luca?