Intervento di Vito Salierno
Intervento al Congresso Internazionale Il pensiero politico di Allama Iqbal svoltosi il 16 maggio 2012 a Palazzo Sormani di Milano
ALLAMA IQBAL E L’ITALIA
di Vito Salierno
Tutta l’opera poetica e filosofica di Allama Iqbal, il vate della nazione pakistana in particolare e dell’Islam contemporaneo in generale, è permeata di un afflato volto alla comprensione dei popoli, nella fattispecie a creare un ponte tra due mondi di antica civiltà, l’Asia e l’Europa, che agli inizi del XX secolo si cercavano e si respingevano al tempo stesso: l’Asia era preda del colonialismo, l’Europa delle lotte sociali, ed entrambe, ognuna con una propria caratteristica, sull’orlo di due guerre mondiali, una più disastrosa dell’altra.
Di particolare importanza fu il suo periodo di studi in Europa tra il 1905 ed il 1908: al Trinity College di Cambridge conseguì il B.A. in filosofia nel 1907, e l’anno successivo al Lincoln’s Inn di Londra l’abilitazione alla professione forense e all’università di Monaco di Baviera il Ph. D. con una tesi sullo sviluppo della metafisica in Persia, che fu pubblicata a Londra nel 1908.
Il periodo trascorso in Europa fu intenso per studi e ricerche, non solo per la tesi di laurea ma anche e soprattutto per la conoscenza della filosofia occidentale, che a Lahore aveva studiato in maniera generica, e per lo sviluppo del suo pensiero politico e sociale.
Prima di lasciare l’India Iqbal si era dimostrato un nazionalista come la grande maggioranza degli indiani, hindu o musulmani: l’atteggiamento era ampiamente giustificato dalla situazione del tempo. Un’eco di questa visione politica si coglie in alcune poesie del Bang-i Dara [Il richiamo della carovana], in particolare in quelle del primo periodo antecedente il 1905, quale “Un nuovo altare” (Naya Shivala):
Ti dirò il vero, o brahmano, se non t’adombri
Gli idoli del tuo tempio stanno invecchiando.
L’odio verso gli amici dagli idoli hai appreso,
Al predicatore il dio l’arte del litigio ha insegnato.
Stanco, ho al fine lasciato il tempio e la moschea,
Ho lasciato il sermone del predicatore e le tue storie.
Tu pensavi che c’era un Dio negli idoli di pietra,
Per me ogni singolo granello della mia patria è Dio.1
tralasciando le poesie più intensamente patriottiche, quale “Il canto dell’India” (Tarana-i Hindi), che nell’originale dell’ottobre 1904 aveva il titolo significativo di “Il nostro paese” (Hamara Desh). In questa poesia che è al tempo stesso politica e filosofica, parlando del suo amore per l’India, Iqbal cercava di pubblicizzare una formula valida per le due comunità hindu e musulmana: l’idea di una separazione era di là da venire. La madrepatria occupa il posto centrale nella mente di Iqbal e la religione è menzionata come un fattore decisivo nella nazione. Piuttosto che la religione, è la madrepatria il centro dell’affetto e della lealtà: invece dei tanti templi, un solo tempio comune dove ognuno può pregare il proprio dio. Altri accenni nazionalistici si riscontrano in due poesie dello stesso periodo, “Lamento di dolore” (Sada-i dard), nella quale Iqbal parla della mancanza di amicizia tra musulmani e hindu, che ritardava l’indipendenza dell’India dalla Gran Bretagna:
La nostra terra fomenta reciproche inimicizie.
Quale unità! la vicinanza è causa di separazione.
Inimicizia e violenza al posto della sincerità,
Separazione e violenza nel raccolto di un granaio.
Se la brezza della fratellanza non è entrata tra i fiori,
Nessun piacere può venire dai canti nel giardino.2
E in “L’immagine del dolore” (Tasvir-i dard):
Pensa alla patria, ignorante! stanno per giungere tempi duri,
Nei cieli si fanno preparativi per la tua completa distruzione.
[…]
Il settarismo è l’albero, il pregiudizio ne è il frutto;
Questo frutto ha fatto cacciare Adamo dal paradiso.3
Nel complesso le poesie scritte sino al 1905 mostrano la disillusione di Iqbal per le condizioni dei Musulmani del subcontinente indiano e dei Musulmani in generale. Questa tristezza si rivela in una poesia sulla “Sicilia” (Siqilliyyah) che scrisse durante la traversata del Mediterraneo nel suo viaggio dall’India verso l’Inghilterra; vedendo dalla nave, in lontananza, le coste dell’isola, compose una delle liriche più toccanti. È uno struggente ricordo delle antiche glorie dell’isola durante il periodo della civiltà araba. Un tempo – dice – gli abitanti del deserto solcavano il mare Mediterraneo con le loro navi agili, facendo risuonare tutta l’isola del grido di battaglia Allah u akbar [Iddio è grande]; ora tutto piange nel mondo dell’Islam.
Il nazionalismo è un fenomeno recente nella storia dell’umanità, anche se esisteva in passato in forme differenti: l’idea di nazione è un concetto moderno che risale al XVIII secolo. Durante il medioevo esistevano paesi e stati dominati da differenti forme di autorità sociale, organizzazioni politiche e coesioni ideologiche nelle forme di tribù e clan, città-stati, signorie feudali, stati dinastici. A quei tempi i sudditi, non ancora cittadini, erano fedeli alle loro religioni, in particolare Cristianesimo e Islam.4 Io credo che il nazionalismo in senso moderno sia nato in Europa all’epoca dell’Illuminismo e nel mondo islamico all’epoca del colonialismo sotto la pressione di un concetto più moderno di Stato par excellence; in un senso più generale è stato il prodotto della nascita delle lingue regionali e della creazione di confini territoriali.
Quando Iqbal iniziò ad affrontare il problema dei musulmani, in particolare dei musulmani indiani, l’idea del nazionalismo nel mondo islamico era confinata ad una élite della classe media emergente. Era stato Iqbal ad anticipare “le linee guide da seguire per rendere popolare il nazionalismo nel mondo musulmano”,5 in un periodo in cui cercava di conciliare una forma di collaborazione tra hindu e musulmani accettabile per la maggioranza e per le minoranze. Il concetto di patria è al centro del pensiero di Iqbal e la religione diventa un fattore decisivo nella vita della nazione: la patria, più che la religione, costituisce il fulcro dell’affetto e della lealtà dei cittadini – al posto dei vecchi templi un “nuovo tempio”.
Ad ogni modo anche il concetto iqbaliano di nazionalismo era più ampio di quello occidentale. Quando Iqbal parla di “patria” (vatan) non si riferisce alla patria ristretta dei musulmani d’India, ma all’intero mondo (sara jahan):
La Cina e l’Arabia sono nostre, l’India è nostra,
Siamo musulmani, tutto il mondo è la nostra patria.6
E nei versi conclusivi di questa poesia “Inno nazionale” (Tarana-i milli) c’è la spiegazione del titolo dell’opera, “Il richiamo della carovana”:
Il canto di Iqbal è come il segnale della carovana,
La nostra carovana riprende il suo cammino.7
Il suono dei campanelli appesi al collo dei cammelli è il segnale che dà il via alla marcia quotidiana della carovana al mattino; metaforicamente diventa per il poeta il segnale del risveglio della sua gente. Nel ricordare ai Musulmani il loro passato dimenticato, Iqbal voleva dire che l’Islam non è solo un insieme di rituali ma è nella sua essenza un atteggiamento di vita. Ai suoi correligionari fermi nella passività e sopraffatti da un senso di frustrazione portò un messaggio di speranza.
Il nostro excursus sul nazionalismo di Iqbal si conclude con la poesia dal titolo omonimo “Nazionalismo” (Vataniyyat), che ha un sottotitolo significativo “la nazione come concetto politico”:
Nel linguaggio politico la patria ha un significato,
Nel linguaggio del Profeta ha un altro significato.
A ciò si deve nel mondo la rivalità fra le nazioni,
A ciò si deve la soggezione, scopo del commercio.
A ciò solo si deve se la politica non ha sincerità,
A ciò solo si deve se la casa del dolore è spoglia.
A ciò si deve se il creato di Dio si divide in nazioni,
A ciò si deve se la comunità dell’Islam è sradicata.8
In Europa Iqbal studiò il pensiero dei grandi filosofi e il suo orizzonte si ampliò; il poeta osservò i progressi della scienza e i benefici nelle condizioni di vita delle popolazioni, ma si rese anche conto che il nazionalismo portava ad una competizione tra le nazioni europee. Prima di venire in Europa il suo atteggiamento era quello di un sufi e di un romantico; alcuni mesi dopo aver vissuto in occidente, Iqbal abbandonò sufismo e romanticismo, mise da parte il nazionalismo e diventò un fervente sostenitore del panislamismo. Secondo lui, gli europei avevano perso la fiducia nella vita dello spirito e nello sviluppo di una società basata sull’uguaglianza, sulla giustizia e sulla verità – sembra di sentire parole attuali. Poté toccare con mano i risultati pratici del nazionalismo che avrebbe condotto l’Europa alla catastrofe di una guerra mondiale e successivamente alle decine di milioni di morti della seconda guerra mondiale. Il nazionalismo aveva creato barriere artificiali tra gli uomini e tra le nazioni: non aveva una base morale e spirituale ed era, anzi, diventato una fonte di conflitti tra i popoli dividendoli. Se quest’idea fosse stata diffusa nel mondo dell’Islam, avrebbe causato divisioni e incomprensioni, ritardando all’atto pratico anche l’indipendenza dell’India.
In una poesia (ghazal), “Marzo 1907”, mise in guardia l’Occidente e l’Oriente dai pericoli insiti in un nazionalismo basato su razza, colore e confini geografici, invitando l’Oriente a non cadere nell’errore che l’Europa stava facendo:
O abitanti dell’ovest! La terra di Dio non è un negozio,
L’oro che considerate puro non è che un vile metallo.
La vostra civiltà si suiciderà con la sua stessa spada,
Il nido costruito su di un ramo fragile non potrà durare.9
E fu più esplicito in una lirica successiva “Il mondo dell’Islam” (Dunia-i Islam):
Chi discriminerà in base al colore e alla razza, perirà;
Si tratti del Turco nella tenda o dell’Arabo di alto rango.10
In seguito spiegò così il suo atteggiamento:
Ho ripudiato il concetto di nazionalismo da quando non era noto né in India né nel mondo islamico. Sin dall’inizio mi apparve chiaro, dagli scritti di autori europei, che il nazionalismo era l’arma di cui aveva bisogno l’Europa per scopi imperialistici, da diffondere nei paesi musulmani per rompere l’unità religiosa.11
L’ideale ultimo era la lealtà alla “comunità” (ummah), un concetto più ampio di quello della “patria”: la comunità diventava per Iqbal un’entità sopranazionale al posto delle realtà geografiche.12
Lettore ed esegeta del Corano, della sostanza non della lettera, mise in guardia sia l’Oriente che l’Occidente dal diventare preda dell’ateismo e del materialismo. Secondo Allama l’errore più grande fatto dall’Occidente era stata la separazione tra Stato e Chiesa, una irrisolta vexata quaestio, che aveva portato l’Europa nelle spire del materialismo. Lo ribadì in Inghilterra dove si era recato nel 1931 per partecipare alla Seconda Conferenza della Tavola Rotonda; invitato a parlare al suo antico Trinity College, a Cambridge, ammonì gli studenti a non cadere nell’errore del materialismo, che li privava della loro vera anima:
Venticinque anni fa ho visto i lati negativi di questa civiltà, facendo delle profezie, che erano state da me espresse verbalmente, anche se non le vedevo chiaramente: ciò accadde nel 1907. Dopo sei o sette anni le mie profezie si avverarono, parola per parola. La guerra europea del 1914 fu il culmine degli errori sopradetti da parte delle nazioni europee nella separazione tra Stato e Chiesa.13
Iqbal aveva messo per iscritto questi pensieri nel settembre 1921 in una lettera a Wahid Ahmad, il direttore di “Naqib”:
Il grande nemico dell’Islam e dei Musulmani in quest’epoca è l’idea di una distinzione razziale e di un nazionalismo territoriale. Quindici anni fa me ne resi conto per la prima volta. A quel tempo ero in Europa e questa constatazione portò alla mia mente un cambiamento epocale. Infatti, il clima che si respirava in Europa mi fece diventare un vero musulmano: è una lunga storia – la scriverò quando avrò tempo […]. Non so quali potranno essere gli effetti dei miei scritti sulla vita degli altri, ma è certo che questa idea ha influenzato mirabilmente la mia vita.14
Le idee espresse a Cambridge, ampliate, furono il tema della conferenza che Allama tenne a Roma, all’Accademia d’Italia, il 28 novembre 1931: il poeta parlò “a braccio”, in inglese, su un “tema etico-religioso” – questa fu l’unica notizia di cronaca riportata in un trafiletto dei quotidiani della capitale. Fu un vero peccato che la conferenza non sia stata scritta; il rammarico è maggiore leggendo la “scaletta” che il poeta aveva scritto a mo’ di guida e che è stata pubblicata solo pochi anni fa.15
La conferenza si articolava in cinque punti:
1. L’Islam si muove verso l’Occidente, la Russia verso l’Oriente: dalla comprensione di questi due movimenti dipende il destino della civiltà moderna e la relazione dell’Inghilterra con il mondo dell’Islam dal punto di vista morale, politico, economico.
2. Tre sono le forze che determinano il mondo odierno: a) la civiltà occidentale; b) il comunismo; c) l’Islam.
3. L’Islam si muove verso l’Occidente. Non è decadenza, ma risveglio; è un ricerca del potere.
4. L’Inghilterra e l’Islam. Aspetto politico ed economico.
5. Conviene ottenere l’amicizia dell’Islam.
Da queste note qui sintetizzate si può capire l’interesse dell’intera conferenza. Il discorso era un excursus complesso: un esame della situazione storica del movimento dell’Islam e della volontà di un dialogo con l’Europa. Quest’argomento era già stato indicato nella prima delle conferenze di The Reconstruction of Religious Thought in Islam, quella relativa alla “conoscenza ed esperienza religiosa”:
Negli ultimi cinque secoli il pensiero religioso nell’Islam è rimasto, in pratica, stazionario. Ci fu un tempo in cui il pensiero europeo aveva ricevuto ispirazione dal mondo islamico. Tuttavia, il fenomeno più caratteristico della storia moderna è la straordinaria rapidità con la quale il mondo dell’Islam si muove spiritualmente verso l’Occidente. Non c’è nulla di errato in questo movimento perché la cultura europea, nel suo aspetto intellettuale, è solo un ulteriore sviluppo di alcune delle fasi più importanti della cultura islamica. Il nostro unico timore è che l’esteriorità abbagliante della cultura europea possa arrestare il nostro movimento e non farci raggiungere la vera natura intima di quella cultura.16
Il tema fu approfondito nella sesta conferenza riguardante “il principio di evoluzione nella struttura dell’Islam”:
Sotto l’aspetto politico l’Islam è solo un mezzo pratico per realizzare il principio dell’unità divina (tohid), un fattore che opera nella vita intellettuale ed emotiva dell’umanità. Richiede lealtà a Dio, non ai troni, e dato che Dio è la base spirituale ultima di tutta la vita, la lealtà a Dio equivale alla lealtà dell’uomo nei confronti della propria natura ideale. La base spirituale ultima di tutta la vita, così com’è concepita dall’Islam, è eterna e si rivela nella varietà e nel cambiamento. Una società basata su questo concetto della Realtà deve conciliare, nella sua vita, le categorie della permanenza e del cambiamento; deve avere principi eterni che regolino la vita collettiva, perché l’eterno ci dà un punto di appoggio nel mondo del cambiamento perpetuo. Tuttavia, i princìpi eterni, se sono usati per escludere tutte le possibilità del cambiamento che, secondo il Corano, è uno dei più grandi “segni” di Dio, tendono a immobilizzare ciò che per sua natura è essenzialmente mobile. Il fallimento dell’Europa nelle scienze politiche e sociali è un esempio del primo principio, l’immobilismo dell’Islam negli ultimi cinque secoli è un esempio del secondo.17
Iqbal continua parlando della storia dell’evoluzione nella struttura dell’Islam (ijtihad) e del carattere della Legge dell’Islam esaminando le situazioni locali, in particolare nella Turchia nazionalista che aveva “assimilato l’idea della separazione tra Chiesa e Stato dalla storia delle idee politiche europee”. E conclude elencando le tre cose di cui ha bisogno l’umanità: “una interpretazione spirituale dell’universo, una emancipazione spirituale dell’individuo, princìpi-base di importanza universale che siano di guida nell’evoluzione della società umana su una base spirituale”.18
Per la parte relativa al comunismo ci è di aiuto la sezione finale del terzo volume di poesie in urdu, Zarb-i Kalim [La verga di Mosè], intitolata “La politica in Oriente e in Occidente” (Syasyat-i Mashriq o Maghreb): significative sono le poesie incluse quali “Comunismo” (Ishtarakiyat), “La voce di Karl Marx” (Karl Marx ki avaz), “Rivoluzione” (Inqilab), “La politica dell’Europa” (Syasat-i Afrang), “Democrazia” (Jamhuriyat).
Nel Javed-namah, la sua magnum opus, attaccò comunismo e capitalismo, due sistemi privi entrambi di umanità:
È della stirpe di Abramo l’autore del Capitale, quel profeta senza Gabriele. La verità è infatti implicita nel suo Errore: il suo cuore è credente, il suo cervello è ateo. Gli occidentali hanno perduto i cieli, cercano nel ventre il purissimo spirito! L’anima pura non prende dal corpo forme e profumi, ma il comunismo non si interessa che del corpo. La religione di quel profeta che non riconobbe Dio è basata sull’uguaglianza del ventre, mentre la fratellanza ha il seggio nel cuore; nel cuore è la sua radice, non in acqua e fango.
Ed anche il capitalismo consiste nell’ingrassare il corpo, il suo petto privo di luce è vuoto anche di cuore!
[…]
Entrambi hanno anime insofferenti e impazienti, entrambi ignorano Dio e ingannano gli uomini. La vita per l’uno è produzione, per l’altro riscossione di tasse: l’uomo è come un vetro in mezzo a queste due pietre! L’uno porta alla rovina scienza, religione ed arte, l’altro rapisce l’anima al corpo, il pane alla mano. Li veggo ambedue annegati nell’acqua e nel fango, ambedue hanno il corpo luminoso e il cuore oscurato; ma vita significa ardere e costruire nell’azione, gettare nella polvere il seme del cuore!19
Non si salvava neppure la democrazia “una forma di governo in cui gli uomini si contano, non si soppesano”; e non gli si può dar torto sotto il profilo pratico dato che i voti si compravano e si comprano ugualmente in Oriente e in Occidente:
Uno scrittore europeo [Stendhal] ha rivelato un segreto
Anche se i saggi non svelano il nocciolo del problema:
La democrazia è quella forma particolare di governo
Nella quale gli uomini si contano ma non si soppesano.
L’ultimo punto della conferenza all’Accademia d’Italia riguardava l’amicizia dell’Islam; su questo argomento abbiamo la testimonianza del diplomatico italiano Pietro Quaroni che fu ricevuto da Iqbal nella sua casa di Lahore nel 1936; significativo questo passo, riportato a memoria anni dopo da Quaroni:
Se volete dichiararvi amici o protettori dell’Islam, e se volete che noi cominciamo a crederci, allora dovete cominciare con il rispettarci, con il dimostrarci che ritenete la nostra religione buona come la vostra.
Potrebbe spiegarmi perché l’Italia, proprio adesso, vuole ridiventare Rum? Finché l’Italia resta l’Italia, anche se è un Paese cattolico, purché rispetti la nostra religione come noi rispettiamo la sua, non ci sono ragioni per non andare d’accordo. Ma se l’Italia vuole ridiventare Rum, allora non si faccia illusioni: essa troverà contro di sé tutto il mondo dell’Islam come al tempo del Rum antico.
Noi vogliamo liberarci dagli Inglesi, ma non certo per mettere qualcun altro al loro posto. Anzi, a dire la verità, preferiamo liberarci da noi, con i nostri mezzi.20
Questo argomento era strettamente connesso con quello degli “ism” – un termine che Iqbal detestava: Fascismo, Nazismo, Franchismo in Italia, Germania e Spagna rispettivamente, erano a favore dell’Islam soltanto per i propri interessi politici. È vero che in larghi settori dell’India musulmana e in Inghilterra c’erano state rimostranze per la visita di Iqbal a Roma e per il suo incontro con Mussolini: il poeta, in realtà, voleva capire il ruolo assunto dall’Italia in Europa, forse perché il regime italiano non nascondeva la propria anglofobia, anche se non si era reso conto del fatto che, come già capitato a Tagore e a Gandhi, la stampa italiana, controllata dal regime, avrebbe riportato non quello da lui detto ma quello che riteneva utile ai fini propagandistici. La dimostrazione sta nel fatto che i giornali e le riviste pubblicarono ampi articoli sulla poesia e filosofia di Iqbal, ma non riportarono nulla della conferenza se non due parole: tema etico-religioso.
Nel novembre 1932 Iqbal ritornò a Londra per la Terza e ultima Conferenza della Tavola Rotonda: il Congresso Nazionale Indiano non era rappresentato e Iqbal abbandonò la seduta quasi subito. Dopo aver tenuto in dicembre all’Aristotelian Society di Londra la settima conferenza “Is Religion possible?”, si recò a Parigi per incontrare Henri Bergson e poi in Spagna su invito di Miguel Asin Palacios, l’autore della controversa Escatologia musulmana en la Divina Comedia, apparsa nel 1919.
Nel suo lavoro lo studioso iberico aveva descritto le analogie esistenti tra la costruzione del mondo ultraterreno nella Commedia e l’escatologia musulmana: a sostegno della sua tesi portava comparazioni tra episodi dell’opera dantesca e passi della letteratura araba. All’epoca gli era stato controbattuto, in particolare dal mondo accademico italiano, che Dante non conosceva l’arabo e che le opere arabe cui si riferiva l’Asin Palacios non erano state tradotte in alcuna lingua europea al tempo di Dante. In realtà, queste controtesi, valide di per sé stesse, erano state dettate in parte più da un senso di consorteria che da un approccio veramente critico: si trattava di fare quadrato contro l’Islam come se la fama di Dante potesse essere diminuita dalla conoscenza e da un uso di testi islamici e non viceversa accresciuta. Trent’anni dopo, nel 1949, l’orientalista italiano Enrico Cerulli pubblicava i risultati di un’importante ricerca, Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia:21 nella prima parte riportava i testi francese e latino relativi al viaggio celeste del Profeta (al-mir’aj, cioè l’ascensione al cielo, da cui il titolo La Scala, ossia la salita) e alla visione dei cieli e dell’inferno; nella seconda, i testi pressoché inediti, di autori medievali, contenenti notizie sulle tradizioni escatologiche musulmane. Lo scopo di questa seconda parte era quello di valutare quanto l’Occidente conosceva delle idee musulmane sul Paradiso e sull’Inferno indipendentemente dal Libro della Scala, che era una traduzione latina e francese, derivata a sua volta dall’arabo.
A questi aspetti dell’osmosi Islam-Occidente pensava Iqbal quando scriveva le sue conferenze filosofiche, dicendo che,
con il risveglio dell’Islam era necessario esaminare, in uno spirito indipendente, quanto il pensiero europeo e le conclusioni raggiunte potevano aiutare i musulmani nella revisione e, se necessario, nella ricostruzione del pensiero teologico dell’Islam.22
Anche se il libro di Asin Palacios non è stato rintracciato nella biblioteca personale di Iqbal,23 Allama ne conosceva di certo il contenuto perché il suo antico professore a Lahore, Thomas Arnold, aveva scritto, sempre nel 1919, una recensione del libro in oggetto.24
Non dimentichiamo che agli inizi del 1932, in febbraio, Iqbal aveva pubblicato il Javed-namah,25 in persiano, paragonabile nello schema al poema dantesco: una rappresentazione allegorica di un volo nel mondo Superiore, compiuto dall’anima di Iqbal, che ha come suo Virgilio l’anima del grande mistico persiano del XII secolo, Jalal ad-din Rumi. Iqbal non tocca però l’Inferno, né fa alcun accenno al peccato; interessante è il suo incontro con Nietzsche, il filosofo tedesco propugnatore della teoria dello Übermensch. La vera fonte del messaggio, dato al mondo da Iqbal, era lo spirito dell’Islam: Nietzsche non credeva nella religione, per Iqbal questa era invece la sola sorgente di vita e di forza.
Come è noto, Allama Iqbal fu il teorico del Pakistan: in un celebre discorso tenuto ad Allahabad, il 29 dicembre 1930, Muhammad Iqbal lanciò l’idea di una “nazione musulmana”, una “India musulmana all’interno dell’India”:
Vorrei vedere il Panjab, la Provincia di Frontiera Nord-occidentale, il Sindh ed il Beluchistan, amalgamati in un unico Stato. L’autonomia entro l’impero britannico o fuori di esso e la formazione di un solido Stato musulmano nell’India nord-occidentale mi sembra che siano il destino finale dei Musulmani, almeno di quelli dell’India Nord-occidentale.26
A questo punto ci concediamo una digressione che riguarda il ruolo dell’Italia nella questione del Pakistan, non rilevante ma significativo della propaganda svolta in quegli anni da alcuni musulmani indiani che dimoravano nel nostro Paese. Si tratta di un documento pressoché inedito, conservato nell’Archivio Storico del Ministero degli Esteri: fu redatto agli inizi del 1942 da un musulmano indiano, M. I. Shedai,27 che compì molti viaggi in Italia e visse a Roma dal novembre 1940, in contatto con le alte sfere della diplomazia italiana in funzione anti-britannica, sino alla caduta del fascismo, e poi a Milano sino al crollo della Repubblica Sociale Italiana. Shedai, che svolgeva molti compiti per propagandare l’idea dell’indipendenza dell’India, aveva organizzato da Roma trasmissioni radio (in codice, Radio Himalaya29), in lingua urdu, in funzione anti-britannica, rivolte ai musulmani dell’India nord-occidentale, non senza l’aiuto della Legazione Italiana a Kabul, retta a quel tempo dal ministro plenipotenziario Pietro Quaroni.29
Il documento, scritto in italiano un po’ approssimato, ha il titolo di “Che cos’è il Pakistan?”; in nove cartelle dattiloscritte, Shedai illustra la genesi del movimento partendo dalla disgregazione dell’impero moghul alla rapida marcia dei Russi sino alla frontiera con l’India nella seconda metà del XIX secolo, preludio a quella che sarà l’occupazione russa dell’Afghanistan trent’anni fa. Shedai esordisce illustrando la parola “Pakistan”:
Da due o tre anni anche in Europa s’ode la parola “Pakistan”, ma la gente si domanda cosa sia. Ѐ qualcosa di nuovo che è venuto dall’India oppure è una delle solite creazioni inglesi? Qualcuno potrebbe chiedere spiegazioni sia intorno all’etichetta, sia intorno al contenuto di questa nuova idea politica. Cominciamo con l’esaminare innanzi tutto il titolo. Quanto al nome, certamente esso è nuovo ma, come mostreremo ora, il contenuto è molto vecchio.
Pakistan, nel vocabolario politico, significa lo stabilimento di uno Stato autonomo come una unità federale della grande federazione indiana [non si parlava ancora di uno Stato a sé stante], ma con il massimo possibile di autonomia sugli affari concernenti intimamente il popolo di una data regione. Quale è questa regione? e qui la parola “Pakistan” lo spiega essa stessa. Pakistan significa: Panjab (PA), Kashmir (KI), Sind (S), Beluchistan (TAN) [non si parlava a quel tempo del Bengala Orientale, oggi Bangladesh]. S’intende quindi il governo autonomo comprendente un considerevole territorio, con una popolazione di circa 45 milioni di abitanti, dei quali la parte predominante, cioè circa il 70%, è musulmana.
Shedai traccia poi un breve profilo storico dell’India moghul da Akbar ad Aurangzeb e analizza la situazione del paese sotto il colonialismo britannico, accennando all’avanzata del colosso russo “nell’Asia Centrale in una rapida marcia verso le frontiere dell’India”. La seconda parte del documento riguarda gli eventi del XX secolo: gli anni della cooperazione tra hindu e musulmani, il fallimento del movimento unitario, la decisione dei musulmani di separare le proprie sorti da quelle degli hindu, la richiesta di un territorio autonomo, il Pakistan, che – dice – è un nome nuovo per un’antica sostanza.
Passa infine ad esaminare più dettagliatamente il problema con riferimento al ruolo dell’Italia: l’Italia – scriveva Shedai nel 1942 – è la nazione più in grado di “comprendere la mentalità orientale, specialmente i musulmani, sia del Mediterraneo sia al di fuori di esso, più di ogni altra potenza europea, poiché il movimento per l’Orientalismo [sic, verso l’Oriente] iniziò proprio in Italia e le Repubbliche italiane di Venezia, Genova, Amalfi ebbero stretti contatti con il mondo islamico e quindi i loro popoli ancora conservano le vecchie tradizioni e le capacità di reciproca comprensione con i popoli d’Oriente”. L’Italia quindi “dovrebbe fare un passo innanzi e dichiarare al mondo che il futuro equilibrio dell’India, o meglio del Vicino Oriente, dipende dallo stabilimento di uno Stato musulmano realmente indipendente in India, che sia libero dagli artigli degli industriali e dei finanzieri britannici”.30
Note
- Muhammad Iqbal, Il richiamo della carovana, Traduzione dall’urdu con introduzione e note a cura di Vito Salierno, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2010, p.95.
- Ibidem, p.70.
- Ibidem, pp.84-85.
- G. E. von Grunebaum, Problems of Muslim Nationalism, in Islam and the West, edited by R. N. Frye, The Hague, 1957.
- Zafar Ishaq Ansari, Iqbal and Nationalism, in “Iqbal Review”, Karachi, The Iqbal Academy, April 1961, p.66.
- M. Iqbal, Il richiamo della carovana, cit., pp.134-135.
- Ibidem.
- Ibidem, p.135.
- Ibidem, p.125.
- Ibidem, p.187.
- Muhammad Iqbal, Speeches and Statements of Iqbal, compiled by “Shamloo”, Lahore, 1948, p.224.
- Vito Salierno, Iqbal e il modernismo, in “Atti di un Iqbal Day”, Milano, Iqbal Foundation Europe, 2009, pp.44-64.
- Ghulam Hussain Zulfiqar, Development of Iqbal’s Mind and Thought, Lahore, Bazm-i Iqbal, 1998, pp.40-41.
- Ibidem, pp.39-40.
- Notes of lecture delivered in Rome and Egypt from the original in Iqbal’s own hand, in Khurram Ali Shafique, Iqbal. An Illustrated Biography, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2006, p.157.
- Muhammad Iqbal, The Reconstruction of Religious Thought in Islam, edited and annotated by M. Saeed Sheikh, Lahore, Institute of Islamic Culture, 2006, p.126.
- Ibidem, p.117.
- Ibidem, p.142.
- Muhammad Iqbal, Il poema celeste, a cura di Alessandro Bausani, Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1965, pp.80-81.
- Pietro Quaroni, Un poeta difficile, in “Corriere della Sera”, Milano, 11 febbraio 1956. Ristampato in Il mondo di un ambasciatore, Milano, Ferro edizioni, 1965, pp.106-112.
- Pubblicato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, e seguito nel 1972 da un testo aggiuntivo, Nuove ricerche sul “Libro della Scala” e la conoscenza dell’Islam in occidente.
- M. Iqbal, The Reconstruction of Religious Thought in Islam, cit., p.6.
- Muhammad Siddiq, Descriptive Catalogue of Allama Iqbal’s Personal Library, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 1983.
- “Modern Language Review”, London, October 1919.
- Qualche mese dopo la pubblicazione, il Javed-namah fu ampiamente recensito da Maria Nallino, Recente eco indo-persiana della “Divina Commedia”: Muhammad Iqbal, in “Oriente Moderno”, Roma, XII, 1932, pp.610-622. La nota islamista aveva tradotto, annotandolo, un resoconto pubblicato a Lahore nel trimestrale “The Muslim Revival”, I, N.2, June 1932, pp.183-200.
- Ghulam Hussain Zulfiqar (edited), Pakistan as visualized by Iqbal & Jinnah, Lahore, Bazm-i Iqbal, s.d., p.20.
- M. I. Shedai (Sialkot 1888-Lahore 1974), attivo propagandista nel Panjab, poi in Afghanistan e in Turchia, fu inviato dal suo partito, l’Hindustan Ghadar Party, in Italia nel 1923 per prendere contatti con il governo fascista. Alla fine del 1926 Shedai si spostò in Francia e poi per un breve periodo in Svizzera sino al definitivo ritorno a Roma nel novembre 1940: qui lavorò per la sezione Affari Transoceanici del Ministero degli Esteri, diretta da Renato Prunas. Dopo la caduta della Repubblica Sociale Italiana visse in Pakistan per alcuni anni svolgendo incarichi diplomatici marginali: tornò poi in Italia per insegnare urdu all’Università di Torino sino alla fine degli anni Sessanta, quando partì definitivamente per la sua terra.
- Il nome “Himalaya” fu preso dal titolo della prima poesia di Allama Iqbal nella raccolta in urdu, Bang-i Dara (Il richiamo della carovana).
- Pietro Quaroni, op. cit.
- Archivio Storico del Ministero Affari Esteri (ASMAE), Roma, Gab. Min. (1923-1943) busta 725 (Gab.408).