Dimenticanze, ostracismi d’arte scultura italiana del ‘900

Dimenticanze ostracismi d’arte scultura italiana del ‘900

di Vitaldo Conte

“Tutto ciò” che per secoli l’uomo ha connotato come scultura è sempre stato, pure nelle sue forme più estreme di astrazione, una “sintesi” architettonica e di relazione con altri linguaggi. Questa per millenni si è identificata soprattutto con la raffigurazione di elementi antropomorfici e con la riproduzione di una realtà fenomenica, anche se l’elemento plastico-figurale ha avuto (nei secoli) diversi esempi di stilizzazione astratta: come nelle statuette ciclatiche o in raffigurazioni Maya. Il destino e il percorso della scultura non sono però dissimili dalle altre espressioni, essendo “il divenire dell’arte” incessante e continuo: l’irrigidimento e l’arresto possono significare l’esaurimento di un linguaggio. “Basta soffermarsi in un nostro cimitero e percorrere con lo sguardo la desolata selva di simulacri marmorei di cappelle e statue, neoclassiche e neogotiche, neobizantine e neobarocche profuse dagli scultori cimiteriali per ogni dove per comprendere dove veramente s’annida la morte dell’arte” (G. Dorfles).

 

La scultura italiana del ‘900, soprattutto quella operante nei decenni successi al secondo dopoguerra, d’impalcatura classica, dalla notevole qualità complessiva, di cui probabilmente nessun altro paese europeo poteva vantare (nello stesso periodo) una uguale ampiezza di risultati, ha dovuto talvolta fare i conti con i “furori” ideologici e di tendenza di una critica d’arte, che ha privilegiato il linguaggio pittorico, considerato più idoneo per esprimere la modernità dell’arte.

I valori analitici e moderni dell’arte, nei decenni ’50 ’60 ’70, “debordanti” talvolta di ripetitività e di sterilità creativa, hanno preso il sopravvento su quelli “caldi” dell’espressione e dei valori poetici, con numerosi epigoni di buona volontà, incoraggiati da critici e da gallerie d’arte, fino alla degenerazione del gratuito, come in tanta presunta Arte Programmata e Cinetica o nell’Arte Concettuale (che comunque risultano importanti poetiche dell’arte contemporanea). Mentre rimaneva ancora un giudizio di ostracismo, talvolta ottuso,  verso aspetti e autori del Futurismo e del Novecento (si pensi per esempio a Mario Sironi), si celebrava viceversa il “realismo pittorico” espresso da alcuni artisti impegnati in tematiche di retorica sociale e politica.

La radice classica non è stata però sradicata nell’arte del ‘900, dall’integralismo razionalistico della critica d’arte, anzi ha continuato a vivere nel corpo delle ricerche che hanno aperto ulteriormente il confine delle arti, nella seconda metà del secolo, sul solco delle “aperture” teorico-creative delle avanguardie storiche (in primo luogo del nostro Futurismo).

La scultura italiana, all’inizio del secolo scorso, è stata in un qualche modo considerata una “lingua morta”, come la definiva nel ’44 Arturo Martini, suo grande protagonista, per lo sviluppato accademismo vecchio e nuovo. Lo scultore ne denunciava le difficoltà nei confronti delle altre arti proclamando la morte della statuaria da millenni assoggettata all’immagine dell’uomo, incapace di instaurare un rapporto diretto e interagente con lo spazio intorno. Persisteva, infatti, in Italia una scultura d’immagine, sul solco della più antica vocazione di questo linguaggio, entro il quale si manifestava tuttavia un nuovo interesse per gli aspetti tecnico-formali, pur con la presenza significativa di un classicismo dominante.

Il rinnovamento aveva come autori di riferimento (oltre a Martini), come rivela S. Fontana in Arte in Italia 1945-1965 a cura di L. Caramel: “Messina, Manzù e che attraverso lo sperimentalismo di Marino giunge ai più giovani Fabbri, Minguzzi, Greco, Fazzini e Mazzullo, lungo una linea di coerenza che non preclude però novità e trasformazioni”. Altri nomi da ricordare, tra quelli accertati dalla critica d’arte: la Mafai, Mazzacurati, Mirko, Mastroiani, Mascherini, Viani, ecc.

Per quanto riguarda la grande tradizione classica della scultura italiana, esistono altri artisti meritevoli di citazione che, per varie motivazioni, risultano ancora oggi poco valorizzati, se non ignorati. Come gli scultori pugliesi di Malie plastiche, mostra che ho curato nel 2002 (Foggia, Lecce): P. Conte, Di Pillo, Martinez.

La scultura italiana moderna, pur nella sua ricchezza di proposte, ha avuto quindi una tradizione e una storia piuttosto ingombranti, da cui, attraverso difficoltà e ipoteche, si è progressivamente liberata acquistando uno spessore e un’autonomia che le hanno permesso di inserirsi, con un proprio inconfondibile stile, nel panorama del rinnovamento plastico dell’avanguardia europea (anche se è lontana dal radicalismo inquieto di quest’ultima). Pur tuttavia in questo scenario una personalità come Boccioni ha “mosso” la scultura italiana dalla propria staticità e sterilità statuaria per “allargarne” le forme nello spazio. Vicino a questa “rottura futurista” continuavano a rimanere presenti le indicazioni e le suggestioni di un Gemito (con ciò che c’era di più vitale e autentico nel verismo meridionale) e di un Medardo Rosso con il suo impressionismo di frammenti che voleva rendere emotivo l’oggetto. Le influenze di questi tre autori hanno continuato a diramarsi e a germogliare nel corpo vivo della scultura italiana, determinando i migliori risultati emersi, anche se continuavano a essere presenti influenze di evasione con il mito, il primitivo e l’arcaico.

La figurazione scultorea, fino alla sua “destrutturazione” astratta, un po’ trascurata nei decenni precedenti (nonostante riconoscimenti, acquisizioni all’estero), sta tornando sempre più frequentemente alla ribalta, negli ultimi anni, con esposizioni e iniziative riguardanti specifiche personalità e panoramiche che attraversano il Novecento.

Le generazioni, attive nel primo e nel secondo dopoguerra, si prestano oggi, a una rilettura e a una opportuna rivisitazione che dovrebbero coinvolgere altre poetiche dell’arte italiana: forzature ideologico-culturali e una critica talvolta omologata non le hanno saputo o voluto valorizzare.

(da ‘Il Borghese’, novembre 2013)