La meraviglia dei Giardini Inglesi della Reggia di Caserta
Oltre il cancello della meravigliosa via dell’Acqua
di sara Foti Sciavaliere
Un salto in un’altra dimensione. Si varca il cancello in prossimità della straordinaria e monumentale fontana di Diana e Atteone in cima alla Via dell’acqua dei Giardini reali della Reggia di Caserta (sulla quale avevo scritto nel numero di aprile 2019 di Arte e Luoghi) ed è come muovere i passi in un mondo sospeso. Incontri altri visitatori come te, famiglie, coppie o qualche sportivo, eppure il silenzio è surreale, solo i suoni della natura, fuori dall’ordine geometrico del vicino giardino all’italiana progettato da Vanvitelli.
Il grande Giardino Inglese si estende su una superficie di oltre 24 ettari e fu voluto dalla regina Maria Carolina , influenzata sia dalla sorella Maria Antonietta – che a Versailles aveva realizzato il Petit Trianon – e dal ministro inglese a Napoli, Lord William Hamilton. A partire dal 1785, di fatto, la sovrana sovvenzionò con il suo personale patrimonio il progetto, che affidò al botanico e giardiniere inglese John Andrew Graefer in collaborazione con l’architetto Carlo Vanvitelli. Possiamo dire però che si tratto di una sorta di capriccio di Maria Carolina la quale presto ne perse interesse e quindi toccò al marito Ferdinando IV, dal 1788, a seguirne i lavori, senza però riuscire a completarlo a causa delle emergenze militari di fine secolo.
Ai primi dell’Ottocento, durante il periodo francese, fu poi avviata la produzione di piante esotiche – con serre e innovative tecnologie – proseguite dai Borboni fino all’Unità nazionale. Seguendo quindi la moda che si stava diffondendo dall’Inghilterra furono costruite numerose “folies” (o capricci architettonici), utili e comode per le soste e il tempo libero dei reali; vennero comunque realizzati anche aranceti e serre destinate alla coltivazione e allo studio delle piante. Nella seconda metà del secolo, sotto la guida dei botanici Giovanni Gussone e Nicola Terracciano, il giardino preso così il nome di “Real Orto Botanico di Caserta”, preservando al suo interno esemplari eccezionali di Cinnamomum camphora (l’albero della canfora), Taxus baccata (il tasso comune), Cedrus libani (il cedro del Libano), nonchè la prima pianta di camelia arrivata in Europa dal Giappone.
Come scrivevo e tanti già sanno, il giardino inglese si contraddistingue dal formale e ordinato modello italiano per gli scorci pittoreschi e suggestivi dominati da una natura apparentemente selvatica, seppure in realtà sia frutto di un’accurata progettazione. L’acqua che alimenta questo giardino proviene dall’Acquedotto Carolino e quasi tutto è frutto dell’intervento dell’uomo, colline e prati, stagni e canali, oltre alle piante importante da ogni latitudine del globo. Le suggestive “scenografie” che si incontrano lungo questo percorso immersivo, di fatto, furono abilmente costruite da Graefer che curò la composizione delle piante insieme a Carlo Vanvitelli che invece si occupò di inserire nei luoghi strategici una serie di ruderi architettonici, che sembrano essere sempre stati lì, dalla notte dei tempi.
Nel cosiddetto “Labirinto”, un boschetto realizzato da Vanvitelli, troviamo un laghetto di ninfee che accoglie nelle sue acque due isolette ricche di vegetazione, la più grande delle quali ospita un tempietto in rovina, con colonne di granito provenienti dagli scavi archeologici di Pompei, mentre l’isolotto più piccolo presenta una sorta di padiglione utilizzato come ricovero per anatre, cigni e altri uccelli acquatici che vivono nel lago.
Passeggiando per i viali del Giardino Inglese tuttavia l’ambiente più suggestivo e scorci che suscitano grande meraviglia e invitano al silenzio della contemplazione della bellezza del luogo è senza dubbio il laghetto abbracciato dal Criptoportico, nelle cui acque si specchia il cosiddetto Bagno di Venere.
Il criptoportico – ricavato da un’antica cava di pozzolana – è un finto ninfeo, a pianta circolare, con pareti di tufo scandite da colonne e pilastri, lungo le quali si aprono le nicchie che ospitano delle statue classiche, provenienti dai coevi scavi borbonici di Pompei e dalla Collezione Farnese. La struttura, scenograficamente costruita per apparire in rovina, ha grossi squarci nel soffitto a lacunari, che lasciano infiltrare la luce e scorgere la fitta vegetazione che l’avvolge; il pavimento è in armi colorati a tassello, volutamente sconnessi, e alle pareti, affrescate all’antica, mostrano crepe che mettono in evidenza pezzi di finto opus reticolatum. Dunque una finta rovina, volutamente realizzata come tale per dare agli ospiti della Corte che passeggiavano per quei giardini la sensazione di camminare nella città romana di Pompei recentemente riportata alla luce e conosceva le sue prime fasi di scavo. Una sorta di parco tematico, una realtà alternativa e immersiva, potremmo definirla oggi.
Un boschetto di allori, lecci e monumentali tassi, contornati da rigogliose felci e una lussureggiante vegetazione, racchiude in un’atmosfera misteriosa un’ansa del laghetto, riproducendo la scena di una sorgente in cui si specchia la statua di “Venere nell’atto di uscire dall’acqua”, scolpita nel 1762 da Tommaso Solari nel marmo di Carrara. Proprio quest’opera dà il nome al più emblematico degli scorci del giardino, conosciuto appunto come Bagno di Venere. Pare assistere a un balzo indietro in tempi mitici, mentre l’animo si placa cullato dal gorgoglio della cascatella che sgorga dalle radici del grande tasso posto al centro dell’emiciclo.