Emanuele Caggiano L’armonia del bello

Maestro di Vincenzo Gemito, lo scultore beneventano realizzò numerose opere monumentali a Napoli dove fu titolare di scultura del Regio Istituto di Belle Arti. Tra le opere più famose “Pane e lavoro” conservata al Museo del Sannio di Benevento

Sara Di Caprio

Dante scrive nell’ XI canto del Purgatorio: «Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, e ora Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura.», un monito che l’allievo tende sempre a superare il maestro e sul valore effimero della gloria. Eppure ci sono nomi che non sono destinati all’oblio e che sopravvivono nel tempo. Certo Giotto superò Cimabue, che rimutò l’arte di dipingere di greco in latino ma, se Cimabue non l’avesse preso a bottega la storia avrebbe preso altro corso. Inoltre, nei libri di storia dell’arte entrambi vengono ricordati e studiati, uno è propedeutico all’altro. Nessun uomo si forma da solo, attinge dal contesto e dai suoi maestri di vita. È il caso di Emanuele Caggiano che fu il maestro di Vincenzo Gemito, lo scultore napoletano che cattura l’animo popolare della sua gente nella seconda metà dell’Ottocento.

Emanuele Caggiano, Pane e lavoro, Museo del Sannio, foto Peppe Guida in occasione della mostra Il bello e il vero, Complesso di San Domenico Maggiore, Napoli

Lo scultore Emanuele Caggiano (Benevento 12 Giugno 1837 – Napoli 22 agosto 1905) in una sua lettera destinata alla commissione governativa che lo nominava professore titolare di scultura del Regio Istituto di Belle Arti di Napoli, non fa mistero di aver passato i suoi insegnamenti a Vincenzo Gemito, riportando in breve i suoi principi: “Le opere dei sommi Maestri vanno ammirate e studiate, ma non imitate servilmente…. I giovani devono trarre ispirazioni dal vero, ma ricordar sempre che il bello è altissima armonia […] A questi principii educai il mio allievo Vincenzo Gemito, artista onorato in tutto il mondo e che Domenico Morelli giudicò il più forte ingegno scultoreo moderno”. Da queste parole si evince quanto il modus operandi di Emanuele Caggiano abbia “ispirato” e guidato il più famoso Vincenzo Gemito, facendogli trovare una sua via dell’arte. È questa di certo la funzione di ogni bravo insegnante sorreggere e lasciar liberi di esprimere lo stile di ciascuno, guidare ma non condizionare. Lo scultore beneventano fu allievo anche di Giovanni Duprè a Firenze e tra le sue opere più importanti bisogna citare “Pane e lavoro” conservata al museo del Sannio di Benevento. L’opera in marmo realizzata nel 1862 fu acquistata dal principe Oddone di Savoia e collocata dapprima nel Museo reale di Capodimonte, ed ebbe un gran successo di pubblico tanto da essere replicata più volte. La statua viene ricordata, con queste parole, dall’erudito Luigi Settembrini “Io l’ho riveduta, la buona fanciulla che sempre lavora, e discinta e scalza come si leva di letto siede sopra uno scanno e non intende altro che al suo lavoro su cui tiene fissi gli occhi e il pensiero. Ella è la figliuola di Emanuele Caggiano scultore, ed è una statua, e si chiama con un bel nome: Pane e Lavoro.”. Una donna che con dignità e in maniera soave, come una Madonna d’altri tempi, con la croce sul petto, cuce il filet in tondo mentre poggiato a terra in un semplice cestino c’è il pezzo di pane che riconduce al titolo dell’opera. Una delle repliche, eseguita per G.Budillon, fu premiata al Salon di Parigi e all’Esposizione di Londra e non a caso lo stesso Settembrini proponeva per la sua bellezza di collocarne una copia in ogni scuola femminile d’Italia.


Tra le commissioni importanti di Caggiano emerge senz’altro la statua di Federico II di Svevia, in una nicchia della facciata del Palazzo Reale di Napoli, commissionata dal re nel 1888. La statua cerca di catturare l’immagine del puer Apuliae con lo sguardo impavido e in atto di camminare in avanti con la spada in pugno.


Inoltre lo scultore ha anche abbellito la colonna di epoca borbonica in Piazza dei Martiri che un tempo si chiamava Piazza della Pace, a Napoli nel quartiere di Chiaia a breve distanza dal lungomare. Sulla sommità troneggia la virtù dei martiri, sostituendo una precedente statua della Madonna della Pace. La scultura in bronzo è una Vittoria Alata con in mano una corona di alloro e le ali spiegate, morbidamente modellate dal vento, che sembra proprio stia spiccando il volo verso l’infinito. La tunica avvolge la figura in maniera sinuosa lasciando trasparire la perfetta anatomia. La statua fu eseguita in meno di un anno in cui accolse nel suo studio proprio Vittorio Gemito avviandolo all’arte. Proprio per questa scultura veniva elogiato dal suo antico maestro Duprè ricordando la Vittoria come “uno dei suo i lavori più belli.” In fondo come scriveva Edmondo de Amicis: “Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.”