Sulle orme di Francesco
Lungo l’appennino verso la Valle Santa. Il reportage
Antonio Giannini
Dire della bellezza dell’Italia più che un’ovvietà è spesso uno slogan. Sappiamo che ogni angolo parla di storia, ogni storia parla di arte, di tradizioni, di dialetti, di cibo, di personaggi. Ma quanto di questo enorme, unico e straordinario patrimonio conosciamo veramente? Direi quasi, intimamente?
Una vita intera non basterebbe a coglierne l’essenza specialmente se ti convinci, magari tardivamente, che la maniera più autentica per scoprirla tutta, conoscerla ed amarla è semplicemente percorrerla a piedi.
Da quando, in questi ultimi anni, partendo da Chiusi La Verna in Toscana con uno zaino in spalla, ho iniziato un viaggio verso sud lungo tutto l’ Appennino, mi si è aperto un mondo nuovo di cose straordinarie che solo l’esperienza del cammino può rendere al massimo grado .
Non che io sia un fervido credente, ma l’impulso principale al concepimento di questa avventura è stato San Francesco d’Assisi, per il fascino che quell’uomo ha sempre suscitato su di me come sulla moltitudine dei credenti e dei non credenti e per l’intimo legame che lo lega a quel territorio.
Tutto l’Appennino parla di lui. Parlano di lui quelle montagne su cui, chissà quante volte, nelle sue continue peregrinazioni, ha posato gli occhi e con cui ha dialogato. Parlano di lui i boschi millenari, i tanti straordinari santuari disseminati sul territorio in perfetta armonia col paesaggio. Parlano ancora di lui, come in un dialogo infinito, i borghi quasi sconosciuti ai più, i paesi e le città.
Percorrere queste strade a volte ardue e misteriose, dimorare nei conventi, parlare con la gente del posto è una esperienza straordinaria dove senti la costante presenza di Francesco e la sua forza carismatica e quella del suo messaggio potente e coraggioso di povertà che ha comportato non pochi imbarazzi alla chiesa di Roma sempre in bilico, con le sue contraddizioni interne, tra fede e potere temporale.
Dopo dodici giorni di cammino, a metà dell’intero percorso che mi ero preposto, sono giunto a Spoleto valicando passi, guadando corsi d’acqua, attraversando boschi, percorrendo vallate, dimorando in paesi di straordinaria bellezza come Pieve Santo Stefano, San Sepolcro, Città di Castello, Gubbio, Assisi, Spello, Trevi. E a Spoleto, sistemato in un piccolo albergo, dimora inconsueta data la mia predilezione per i conventi, prima di cena, ho assolto a un mio vecchio desiderio di ripercorrere, senza pesi sulle spalle e rigenerato da una doccia tonificante, i passi dell’amato Goethe sulla passeggiata panoramica sopra la Città fino al famoso acquedotto con i suoi dieci archi che allo stesso tempo è ponte fra una montagna e l’altra, da lui mirabilmente descritto nel suo “Viaggio in Italia”.
E da quel posto privilegiato ho potuto ammirare nella luce magica del tardo pomeriggio lo spettacolo del paesaggio tutto intorno, dai monti Sibillini ad est, i paesi di Trevi, Foligno, Spello, davanti verso valle, al monte Subasio troneggiante come un immenso panettone al centro della spianata che nei giorni precedenti avevo percorso fin quasi in vetta per scendere a Spello proveniente da Assisi.
E li, su quel monte ho potuto vedere, in un contesto di natura selvaggia impressionante, inserito in un sito straordinario fatto di roccia e di vegetazione selvatica, affacciato su un dirupo, l’Eremo delle Carceri dove Francesco era solito rifugiarsi in meditazione con i suoi compagni. Il volo quasi immobile di alcuni rapaci dalle grandi ali spalancate, formavano un’immagine senza tempo di grande suggestione.
Dopo aver girovagato per Spoleto, quella sera ho cercato di mettere in fila i ricordi, ma come in un caleidoscopio, questi mi venivano alla mente tanto forti quanto confusi.
Ero in giro da parecchi giorni e a quel punto del mio cammino sono stato sfiorato dal pensiero di interromperlo momentaneamente, di dare respiro ai miei ricordi, all’esperienza sin li fatta, giusto il tempo per riviverla mentalmente, per rielaborarla, capitalizzarne i frutti, direbbe un economista.
Tanto più perché un vago pensiero mi diceva che, concluso il tratto che credevo più affascinante, quello umbro – toscano, il prosieguo nel Lazio sarebbe stato si piacevole, ma meno spettacolare ed emozionante.
E invece mi sbagliavo di grosso perché non sapevo che il bello, se ancora fosse possibile, quello che mi sarebbe rimasto più impresso di quel viaggio, doveva ancora arrivare.
La mattina seguente i dubbi della sera prima erano già svaniti, ed in una giornata che si preannunciava mite e splendida, come solo maggio sa regalare, ho continuato proseguendo verso sud.
Di lì a qualche giorno passando per la Romita di Cesi e Collescipoli sono giunto al fantastico borgo medievale di Stroncone, ed è stata la prima sorpresa, direi un primo regalo, un viatico, più che un invito, a proseguire verso la Valle Reatina.
A Stroncone mi sono inoltrato nelle sue stradine e viuzze che paiono come una casba medievale, e tra una chiacchiera scambiata con un anziano abitante e qualche foto scattata nella luce magica del tardi pomeriggio, il tempo è passato in fretta.
A sera, In una terrazza affacciata sulla valle, seduto su una panchina sotto un platano, sono stato unico spettatore del lento declinare del sole dietro la montagna con le sue sfumature di rosso. Qua e la, brandelli di nuvole screziavano il cielo dando profondità alla scena. Pregustavo, dopo una giornata di saliscendi, la cena in una trattoria del paese ed il riposo della notte.
Prima di addormentarmi, quella sera, ho pensato che l’emozione dell’esperienza che stavo vivendo era si dovuta alla scoperta di quell’angolo di Paese da me fino allora sconosciuto ma, il modo particolare, direi in punta di piedi, con cui mi avvicinavo a quei posti così intimi ed appartati rendeva quella esperienza ancor più unica e straordinaria. Quella sensazione l’ho paragonata all’ebbrezza della scoperta dei primi viaggiatori di territori mai esplorati e ho pensato anche che, in un mondo che si va sempre più globalizzando ed uniformando intorno al pensiero unico del mercato, un giorno, non molto lontano, perderemo definitivamente il fascino della scoperta del nuovo e del diverso, semplicemente perché il nuovo e diverso non ci saranno più. E sarà una grave e definitiva perdita, perché forse più niente ci sorprenderà.
Ho pensato al futuro di questi piccoli borghi dopo l’estinzione di questa ultima, residua generazione di anziani che ancora, in qualche modo, li tengono in vita. Forse in un prossimo futuro si trasformeranno in villaggi Airbnb? O musei all’aperto? Un velo di malinconia mi ha attraversato un attimo prima di prendere sonno.
Uscito prestissimo la mattina, mi sono abbeverato alla fontana del paese e la frescura dell’aria, il rumore di una sedia spostata all’interno di una casa, il canto lontano di un gallo mi hanno salutato per un nuovo giorno tutto da vivere.
Dopo alcuni chilometri ed una lunga salita, ho valicato, finalmente, nella splendida “Valle Santa” e questa, e tutto quello che mi attendeva, sarà il premio alla determinazione a proseguire fino in fondo il mio cammino.
Da li in alto la vista è sublime e si possono ammirare i borghi e i paesi tutt’intorno e i loro eremi, a cominciare da quello di Greccio dove, poco più tardi, arriverò e quel posto, così fresco e riposante, mi accoglierà nella sua intimità ed io, liberato le mie spalle dal fardello, mi concederò una riposante visita tra le mura del santuario cogliendone tutta la suggestione.
Francesco amava particolarmente l’eremo di Greccio e la Valle Reatina. “Negli anni degli inizi della Comunità”, recita la guida di Angela Serracchioli edita da Terre di Mezzo che porto con me, “la valle aveva accolto amorevolmente lui e i suoi compagni quando Assisi chiudeva le porte a quella banda di straccioni che una volta erano stati giovani di belle speranze. Il primo gruppo della comunità troverà rifugio a Poggio Bustone e negli anni successivi i suoi fratelli e lui soggiorneranno a Greccio, Fonte Colombo a San Fabiano la Foresta che è a Rieti” e queste, appunto, erano le perle che, disposte tutte intorno alla Valle Santa come ad una corona preziosa, mi attenderanno nei giorni successivi.
Lasciato l’eremo ed arrivato a Greccio, dopo la sistemazione presso una casa privata, sono uscito per le vie di questo piccolissimo borgo medievale e, giunto nella stupenda piazza dominata dalla chiesa di San Michele e da una torre campanaria bellissima, ho trovato forse l’unica trattoria del borgo dove, una delle quattro donne sedute a semicerchio davanti all’ingresso, alla mia richiesta mi ha invitato ad accomodarmi ad un tavolo all’interno , ospite unico, di quel fresco e pulito locale dall’arredamento sobrio ed antico .
La donna, avanti con gli anni, ha cucinato solo per me un’enorme portata di pappardelle con funghi e, tra un sorso e l’altro di un rosso locale, si è resa di buon grado disponibile a raccontare scampoli della sua vita e quella del paese, in particolare del primo presepio della storia realizzato da Francesco a Greccio e, mentre parlava, ho pensato che sarebbe straordinario trovare sempre qualcuno disposto a raccontarti storie.
La conversazione era piacevole. La mia interlocutrice, che sulle prime mi era sembrata di pochissime parole, forse stimolata da qualche mia domanda, aveva mostrato tutta la sua loquacità e forza espressiva al punto che con dispiacere ho dovuto, di li a poco, alzarmi per andare via. Bisognava guadagnare il letto per dormire il tempo necessario per ricominciare, l’indomani presto, una nuova giornata di cammino.
Avviatomi per un ultimo giro tra le stradine del borgo, prima di rientrare, mi sono domandato qual è il richiamo irresistibile che mi spinge verso questo tipo di esperienza, la vera istanza di questo andare senza posa per vie così poco battute e piene di voci.
Non so se è stata una risposta, ma nello stesso tempo in cui mi ponevo quella domanda, quasi a prevenirla, forse influenzato dal canto del gallo udito quella mattina all’alba, ho pensato alle parole di Thoureu che descrivono quel canto come l’espressione della salute e della forza della natura, un messaggio d’orgoglio al resto del mondo, benessere che zampilla dalla sorgente, una nuova fonte delle muse per celebrare l’istante che fugge. E poi “Quando, in preda alla più profonda tristezza, odo da lontano, o nelle vicinanze, il canto di un gallo rompere la terrificante immobilità domenicale delle nostre strade, o la veglia nella casa di un morto, dico a me stesso ‘c’è qualcuno di noi, dopotutto, che sta bene’, e un fremito improvviso mi riporta a me stesso”.